La sinistra anti-Putin sotto tiro

Sergei Udaltsov

Corre seri rischi – fino a 10 anni di carcere – il focoso leader della sinistra comunista anti-putiniana, Sergei Udaltsov, incriminato per aver “organizzato disordini di massa”, per giunta in accordo con un Paese straniero – la Georgia. La casa di Udaltsov è stata lungamente perquisita stamattina, insieme a quella dei suoi genitori; Udaltsov stesso è stato accompagnato al quartier generale del Comitato investigativo della Procura per essere interrogato. Secondo il suo avvocato, è probabile che venga trattenuto in carcere. L’accusa si basa su una videoregistrazione fatta di nascosto a Minsk, capitale della Bielorussia, in cui si sente e in parte si vede Udaltsov parlare con Givi Targamadze, un leader politico georgiano stretto alleato del presidente Mikheil Saakashvili, e discutere dell’organizzazione di manifestazioni anti-regime in diverse città russe. Il video era parte di un documentario mandato in onda dall’emittente televisiva NTV (di proprietà di Gazprom), fortemente denigratorio nei confronti dell’opposizione.

Già un altro esponente di spicco del movimento di opposizione al Cremlino, il blogger Aleksej Navalny, è stato incriminato con un’accusa tanto grave quanto poco verosimile (furto di legname) e rischia a sua volta fino a dieci anni di prigione se condannato (per ora comunque Navalny gode di piena libertà, salvo il divieto di lasciare la Russia, e ha anche fatto attivamente campagna elettorale per le amministrative di domenica scorsa). Navalny e Udaltsov sono fin dall’inizio delle proteste, nel dicembre scorso, i due personaggi più presi di mira dalla polizia e dalla Procura: sono stati ripetutamente fermati in piazza e tenuti in guardina ogni volta per qualche giorno, e contro di loro sono state elevate le accuse più serie.

Sono anche i due – seppur diversissimi e per certi versi opposti – che hanno allargato maggiormente la “presa” dell’opposizione anti-Putin, fino all’anno scorso confinata nel recinto dei gruppetti liberali filo-occidentali e di qualche organizzazione per i diritti umani o ecologista: Navalny ha fatto breccia nel “popolo di internet” lavorando a suon di twit e occhieggiando ai nazionalisti di destra, Udaltsov ha invece messo in crisi soprattutto il Pc russo di Gennady Zyuganov, portando in piazza moltissimi militanti su una base abbastanza generica e mettendo in imbarazzo la leadership del partito.

Udltsov ha sempre smentito le accuse che da tempo circolano nei suoi confronti, negando di aver mai parlato di organizzare disordini di massa e di aver mai incontrato Targamadze; anche quest’ultimo ha negato ogni contatto con l’esponente della sinistra russa, definendo il tutto “pura propaganda”. Secondo il suo avvocato, che ha visionato il video “incriminante”, non ci sarebbe la minima base per elevare contro Udaltsov un’accusa grave come quella formulata dalla Procura; un altro avvocato però, vicino al partito Russia Unita, ha affermato che invece non solo l’accusa è fondata, ma sarebbe solo “la punta dell’iceberg, perché ci sono le prove di crimini molto più seri”.

Katyn, gli Usa complici di Stalin

L’esumazione dei cadaveri degli ufficiali polacchi, compiuta dai tedeschi nel ’43

Le autorità degli Stati uniti hanno attivamente contribuito a coprire per decenni le responsabilità sovietiche nel massacro di Katyn, nascondendo le prove in loro possesso e accettando la versione sovietica dei fatti anche negli anni più duri del maccartismo e della guerra fredda. L’oggettiva complicità con Stalin nell’attribuire ai nazisti la fucilazione in massa di 22mila ufficiali polacchi compiuta invece dagli uomini del NKVD su diretto ordine del Cremlino andrebbe fatta risalire a un ordine di F.D. Roosevelt, che nel 1943 non voleva guastare i rapporti con gli alleati sovietici mentre le sorti della guerra erano ancora in forse; quello che stupisce è che il silenzio venne poi mantenuto anche da Truman e dai presidenti successivi, a costo di mentire di fronte al Congresso.

L’esplosiva rivelazione viene dall’agenzia Associated Press, che cita una serie di documenti declassificati dagli Archivi nazionali degli Stati uniti. I documenti mostrano senza ombra di dubbio che il governo statunitense aveva ricevuto chiare indicazioni, già nel 1943, da parte di militari americani prigionieri di guerra dei nazisti, del fatto che il massacro di Katyn fosse avvenuto molto prima dell’estate 1941, cioè di quando le truppe tedesche occuparono la zona (attualmente nel territorio della Bielorussia). Quei militari avevano potuto vedere le salme degli ufficiali polacchi riesumate dai tedeschi e avevano notato che lo stato di decomposizione dei corpi e invece le condizioni “quasi nuove” delle divise collocavano il massacro a poca distanza di tempo dall’occupazione sovietica della Polonia orientale, avvenuta nell’autunno del 1939. Altre prove in possesso delle autorità americane erano state fornite dai servizi britannici, oltre che dal governo polacco in esilio, e tutte concordavano sul fatto che la versione sovietica dell’eccidio di Katyn – cioè che gli ufficiali polacchi erano stati massacrati dai tedeschi durante gli anni della loro occupazione di quell’area (1941-1944) – faceva acqua da tutte le parti e non poteva essere creduta.

Roosevelt invece decise a quanto pare di crederci per convenienza politica, e qualcuno in alto loco ordinò di far sparire i documenti compromettenti giunti in possesso di Washington. Più tardi, nel 1952 in pieno maccartismo, una commissione d’inchiesta del Congresso indagò sulla vicenda e concluse attribuendo la responsabilità dell’eccidio ai sovietici, ma non ottenne collaborazione dalla Casa bianca, che continuò a tenere nascosti i documenti, sostenne che era stato dato credito a Stalin “per necessità” e da allora in poi, fino a quando nel 1990 il Cremlino stesso ammise la verità, continuò ad attenersi alla posizione secondo cui “non c’erano prove conclusive” della pur credibile responsabilità dell’Urss nel massacro. Le rivelazioni odierne, presumibilmente, non faranno bene alle relazioni – perlomeno quelle emozionali – tra Stati uniti e Polonia.

Bielorussia, fucilati due presunti terroristi

Vladislav Kovalyov, uno dei due giustiziati

Due giovani bielorussi, condannati a morte dal tribunale di Minsk come autori dell’attentato che l’11 aprile scorso uccise 15 persone nella metropolitana della capitale, sono stati giustiziati ieri. La notizia è stata confermata ufficialmente. Dmitry Konovalov e Vladislav Kovalyov erano stati arrestati poco dopo la strage – che oltre ai 15 morti aveva anche provocato il ferimento di oltre duecento persone – e nel novembre scorso sono stati condannati alla pena capitale: Konovalov (26 anni) in quanto autore materiale, Kovalyov (25) per averlo aiutato. Il codice penale bielorusso non prevede un secondo grado di giudizio, per cui la sentenza è diventata immediatamente esecutiva; il presidente Oleksandr Lukashenka aveva ricevuto una domanda di grazia dagli avvocati dei due imputati (che si sono sempre dichiarati innocenti), ma l’ha respinta.

La Bielorussia è attualmente l’unico paese europeo che mantiene la pena di morte nel suo ordinamento giudiziario, senza moratorie o sospensive; le esecuzioni, per quanto relativamente rare, sono tuttavia regolarmente portate a termine – anche l’anno scorso due persone hanno affrontato il plotone d’esecuzione. Dopo la condanna di Kovalyov e Konovalov l’Europarlamento aveva approvato una risoluzione in cui si denunciavano “gravi carenze procedurali” nel corso del processo e si chiedevano la concessione della grazia e quindi l’abolizione della pena di morte dall’ordinamento. Richieste giudicate “offensive” dal parlamento di Minsk e dunque respinte in blocco.

La vicenda dell’attentato alla metropolitana di Minsk, comunque, resta abbastanza oscura. Il processo non ha chiarito molte cose ed è opinione largamente diffusa, ovviamente negli ambienti dell’opposizione anti-regime ma anche in Russia, che le autorità abbiano voluto in effetti nascondere almeno una parte della verità: non si è minimamente indicato un movente per i due imputati, né tantomeno si è accennato a eventuali mandanti o complici, e non si è chiarito come sia stato possibile per i due accedere ai materiali necessari per confezionare l’ordigno e organizzare così meticolosamente l’attentato. Desta perplessità anche il fatto che l’arresto dei due sia avvenuto con tanta rapidità, già il giorno successivo all’attentato, e che sul momento la polizia abbia dichiarato che i due erano rei confessi – mentre invece al processo si sono detti sempre innocenti. Ieri, poco dopo la notizia dell’avvenuta doppia esecuzione, dei fiori sono stati deposti nei pressi dell’ambasciata bielorussa a Mosca.

Da Minsk una smentita da 1.000.000 rubli

L’ambasciata della Bielorussia a Roma ci ha scritto, in relazione al nostro post sulla svalutazione della moneta nazionale, per chiedere una rettifica non riguardo al contenuto dell’articolo ma riguardo all’immagine che lo accompagna, quella di una banconota da 1 milione di rubli bielorussi. Tale banconota, ci fa notare l’ambasciata, non è più in circolazione da dieci anni e la sua proposizione accanto all’articolo “potrebbe causare un effetto fuorviante sui lettori” – suggerire cioè, aggiungiamo noi, l’idea di un’iperinflazione come quella tedesca degli anni ’20. Accogliamo con piacere l’osservazione  e ci scusiamo per l’imprecisione: è vero che la banconota ritratta è stata tolta di circolazione (insieme a una di taglio ancora maggiore, da 5 milioni di rubli) nel 2001 con la riforma monetaria che introdusse il nuovo rublo con valore uguale a 1.000 vecchi rubli. Oggi le banconote in circolazione hanno un taglio massimo di 100.000 rubli, corrispondenti ad appena 8,20 euro al cambio di mercato. Purtroppo, è evidente che l’iperinflazione di fatto c’è comunque, al di là di quanto possono suggerire le immagini: quest’anno la moneta bielorussa ha già subito due deprezzamenti “ufficiali” riducendosi a un terzo del valore che aveva alla fine dell’anno scorso.

Bielorussia, crolla il rublo

Una banconota da 1 milione di rubli. Oggi vale 82 euro

Il rublo, moneta nazionale della Bielorussia, ha perso ieri il 40 per cento circa del suo valore nei confronti dell’euro e il 38 nei confronti del dollaro, nella prima giornata in cui la Banca nazionale di Minsk ha consentito gli scambi di valuta a tassi di mercato. Oggi il rublo bielorusso è quotato 12.100 contro un euro e 8.600 contro un dollaro. La moneta ha perso valore in misura analoga anche contro il “cugino” più robusto, il rublo russo, che ora vale 310 rubli bielorussi. La drastica svalutazione, che nei mesi in cui la compravendita legale  di valuta era bloccata nelle banche a un tasso fissato dal governo, era da tempo evidente negli scambi valutari sul mercato nero. Con questa mossa le autorità sperano di dare un nuovo impulso alla bilancia commerciale e all’industria nazionale, favorendo le esportazioni (soprattutto verso la Russia e alcuni paesi dell’Unione europea) e scoraggiando le importazioni di beni stranieri. Potrebbero però esserci ripercussioni pesanti sul livello di vita dei cittadini, soprattutto perché inevitabilente subiranno un forte aumento i costi dell’energia, le cui fonti principali (gas e petrolio) la Bielorussia deve importare quasi per intero.

Gazprom, l'Ucraina e i miliardi

Il gigante energetico Gazprom ha reso noti i risultati economici del primo trimestre di quest’anno, tutt’altro che disprezzabili visto che comportano un utile netto di ben 470 miliardi di rubli (11,5 miliardi di euro), con un aumento del 44 per cento rispetto allo stesso trimestre del 2010. Aumentati in proporzione analoga anche gli incassi e le tasse pagate, naturalmente. Poco male quindi se da una parallela notizia resa nota dalla Corte dei conti federale, che ha spulciato un po’ nei bilanci di questo colosso a partecipazione statale, risulta che oltre 28 miliardi di rubli sono stati “persi, rubati o spesi illegalmente” – cioè non si sa dove siano finiti – nel corso del 2009. Gazprom ha promesso una severa inchiesta interna per accertare le responsabilità dell’enorme ammanco, ma sono in pochi a credere che l’inchiesta possa approdare a qualche risultato senza chiamare in causa i massimi dirigenti…

Nel frattempo Gazprom si prepara a una rovente stagione di trattative internazionali: è da rinnovare il contratto per le forniture di gas alla Bielorussia, con cui esiste un cronico contenzioso e che d’altra parte è così malmessa dal punto di vista di cassa che non potrà in nessun caso pagare gli alti prezzi chiesti dal gigante russo. Nello stesso tempo toccherà metter mano anche al contratto con l’Ucraina, in un contesto politico veramente difficile vista la concomitanza del processo-scandalo contro l’ex premier Yulija Timoshenko accusata proprio di aver firmato un contratto per il gas, nel 2009, troppo favorevole alla parte russa e troppo oneroso per la parte ucraina. Timoshenko sta partecipando al processo da detenuta, essendo stata messa in carcere per offese alla Corte; in sua difesa stanno tuonando da settimane sia le cancellerie occidentali, in primis la diplomazia dell’Unione Europea, sia le autorità russe, che non hanno troppa simpatia per la battagliera ex premier ma temono che una sua condanna rappresenti poi la piattaforma legale per il governo di Kiev per chiedere un sostanzioso miglioramento delle condizioni per le forniture di gas russo. Il premier Azarov ha già detto che il contratto dovrà cambiare  attravers0 un ribasso delle tariffe e un netto taglio delle quantità che l’Ucraina si è impegnata a importare. Nello stesso tempo il governo ha avviato trattative per acquistare gas anche da altri fornitori e per cedere quote dell’azienda energetica nazionale, Naftogaz Ukraine, a compagnie straniere. Quest’ultima prospettiva è quella che fa maggiormente infuriare il Cremlino, che da tempo insiste con l’offerta di fornire gas all’Ucraina a prezzi bassi in cambio della vendita di Naftogaz a Gazprom.

Kirghizstan "verso la normalità". 2000 morti

Rifugiati uzbeki ammassati a ridosso della frontiera

La presidente ad interim del Kirghizstan, Roza Otunbayeva, ha visitato oggi la città di Osh (la seconda del paese), devastata dalle violenze inter-etniche dei giorni scorsi, e ha riferito ai giornalisti che il conto delle vittime alla fine raggiungerà probabilmente i 2000 morti, con migliaia di feriti e forse 400.000 sfollati e profughi, in gran parte appartenenti alla comunità uzbeka; circa il 60 per cento delle case di Osh risulta distrutto. Un portavoce dell’Unicef ha affermato che le persone in un modo o nell’altro coinvolte nell’emergenza umanitaria prodottasi in Kirghizstan sarebbero circa un milione.

Ciononostante, ha detto Otunbayeva, “la situazione sta tornando alla normalità” e “non c’è bisogno di un intervento di peacekeeper internazionali, il governo è in grado di tenere la situazione sotto controllo anche da solo” (anche perché il giorno prima le autorità russe avevano escluso di poter partecipare a un’operazione di peacekeeping). Addirittura, la presidente ha voluto confermare di nuovo che il 27 giugno si terrà in ogni caso il referendum costituzionale annunciato il mese scorso – anche se è lecito avere seri dubbi sull’effettivo grado di controllo esercitato nel paese dalle autorità «provvisorie».
I governi che più da vicino seguono la situazione – Russia e Stati uniti, oltre a quelli dei paesi confinanti – per adesso si limitano a rivolgere pressanti inviti alle autorità di Bishkek perché fermino definitivamente i disordini; c’è però chi invece non nasconde la propria sfiducia nel governo provvisorio, e la cosa non è secondaria: si tratta infatti del leader bielorusso Aleksandr Lukashenka, secondo il quale non c’è verso di ripristinare l’ordine e la legalità nel paese centroasiatico se non verrà in qualche modo ri-coinvolto il presidente deposto Kurmanbek Bakiyev, che si trova appunto rifugiato in Bielorussia. La Otunbayeva e gli altri esponenti del governo provvisorio kirghizo sostengono invece che Bakiyev e suo figlio Maxim (rifugiato a Londra) siano i veri responsabili delle violenze dei giorni scorsi, che avrebbero istigato e favorito con traffici di armi e di droga.
Intanto ci sono ancora moltissimi ostaggi in mano ai gruppi armati delle due comunità che si sono affrontate, anche se lo scambio di questi ostaggi è in corso già da un paio di giorni in presenza di rappresentanti del governo centrale e di ong internazionali. Una situazione analoga a quella di Osh si riscontra nell’altro centro colpito dalle violenze, Jalal-abad (sempre nelle regioni meridionali del paese, ai bordi della valle di Ferghana), dove come a Osh resta in vigore il coprifuoco; e ancor peggiore probabilmente è la situazione nei villaggi e nei piccoli centri, in molti dei quali non è ancora arrivato nessun tipo di soccorso o anche solo di autorità in grado di fare un bilancio della situazione. “E si sa che nei nostri villaggi l’uso è quello di seppellire i morti subito, prima del tramonto”, ha aggiunto Otunbayeva per spiegare come mai i corpi fino ad ora identificati siano “solo” un decimo di quello che dovrebbe essere il numero reale dei morti. D’altra parte, ormai da giorni non si sente più sparare, almeno nelle città, e migliaia di persone sfollate nei giorni scorsi nel terrore dei pogrom stanno incominciando a rientrare, sia kirghizi sia uzbeki – quelli che non sono riusciti a passare la frontiera.
Nel frattempo però la tensione è andata spostandosi nelle regioni del nord (soprattutto a Chui) e nella capitale Bishkek. Posti di blocco gestiti dalle forze armate, dalla polizia e da gruppi di volontari armati presidiano praticamente tutte le strade, perché si temono nuove provocazioni e disordini, dietro cui ancora una volta ci sarebbero le trame dei seguaci di Bakiyev.

Petrolio russo: litigi in Europa, nuove rotte in Asia

tubi oilLa temuta chiusura dei rubinetti non c’è stata – non ancora, perlomeno – ma la vertenza tra Mosca e Minsk per il rinnovo del contratto che regola le forniture di petrolio russo è più che mai aperta. Il nuovo contratto avrebbe dovuto esser firmato entro il 31 dicembre ma le due parti si sono trovate su posizioni apparentemente inconciliabili: la Bielorussia vorrebbe che tutte le forniture russe avvenissero a prezzi scontati come nel 2009, mentre a Mosca si ribatte che quest’anno lo scontro potrà essere applicato solo al petrolio destinato al consumo interno bielorusso, non al greggio che Minsk acquista per poi raffinare e rivendere in Europa occidentale (con consistenti profitti). Domenica si era diffusa la notizia che le forniture erano state bloccate – notizia che ha fatto di colpo salire il prezzo del greggio sui mercati dei futures; ieri invece il governo bielorusso ha smentito che ci sia stata una qualsiasi alterazione nel normale flusso di greggio o nel ritmo di funzionamento delle stazioni di pompaggio e delle raffinerie del paese. Da parte sua il premier russo Vladimir Putin ha reso noto di auspicare al più presto un accordo che normalizzi la situazione con la Bielorussia, lasciando in qualche modo intendere una disponibilità al compromesso.

La faccenda è complicata in primo luogo dalla crisi globale, che con il calo dei prezzi petroliferi ha eroso drammaticamente i margini di cui gli esportatori russi godevano fino al 2008 (e che costituiscono a tutt’oggi la base fondamentale della prosperità russa) e in secondo luogo dal fatto che tutto il greggio arriva in Bielorussia da un unico grande oleodotto, il “Druzhba” (amicizia), che proviene dalla Siberia occidentale e attraverso il quale passano anche le forniture dirette in Polonia e in Germania. Ogni intervento per limitare la quantità di greggio destinato a Minsk rischia quindi di provocare ripercussioni negative anche sulle forniture per gli altri paesi, esattamente come già avvenuto l’anno scorso e, in due occasioni, anche al traffico di gas diretto in Europa attraverso l’Ucraina. Ci sono poi altre complicazioni di carattere politico, soprattutto inerenti il progetto, mai sviluppato fino in fondo ma neppure mai esplicitamente accantonato, di unione tra i due paesi, a partire dall’unione doganale che in parte già esiste e che anzi, ancora nei mesi scorsi è stata rilanciata proprio da parte russa con la proposta di allargamento anche al Kazakhstan nonché di apertura di una trattativa comune per l’ingresso nel Wto.

Sui media, soprattutto europei, la notizia della querelle con Minsk ha fatto passare in secondo piano un’altra notizia, strategicamente di importanza ben maggiore: quella dell’inaugurazione, il 30 dicembre da parte dello stesso Putin, volato per questo fin nel remoto Estremo Oriente, del primo terminale petrolifero russo affacciato sull’Oceano Pacifico e inteso per i sempre crescenti mercati energetici dell’Asia orientale – Cina in primo luogo, ma anche Corea e Giappone. Si tratta del porto petroli di Kozmino, non lontano da Vladivostok, costato due miliardi di dollari e attrezzato per l’attracco di grandi navi cisterna e per il carico di greggio proveniente dall’entroterra. Per il momento a Kozmino arriveranno soprattutto carri ferroviari: il lunghissimo oleodotto (oltre 4700 km) destinato a portare ogni anno 80 milioni di tonnellate di greggio dalla Siberia al mare sarà completato entro il 2014. Per ora il suo percorso si estende “solo” per 2690 km, dalla centrale di Tayshet (dove convergono varie condutture provenienti dai pozzi della Siberia centrale) fino al centro di smistamento ferroviario di Skovorodino, vicino al fiume Amur. La parte attiva della pipeline è costata finora 12 miliardi di dollari, altri 10 ne costerà il completamento: cifre che rientrano nel pacchetto di 25 miliardi di dollari prestati l’anno scorso dalla Cina a Mosca e destinati ad essere ripagati con forniture di greggio per i prossimi vent’anni.

L’inaugurazione del porto di Kozmino manda un messaggio molto forte ai mercati energetici mondiali: la Russia, primo produttore del pianeta di petrolio e gas, lascia definitivamente il suo orientamento europeo e punta a diventare protagonista chiave in Asia, in aperta concorrenza con i produttori mediorientali oggi dominanti. Una scelta che dovrebbe in qualche modo mettere il paese al riparo dal prevedibile calo dei consumi europei legato tanto alla crisi economica quanto alle politiche di risparmio energetico e di riduzione delle emissioni. D’altro canto, è anche una scelta che rende la Russia paradossalmente  ancor più dipendente  dalle fluttuazioni dei prezzi sui mercati mondiali di quanto non sia oggi.

Da parte dell’Europa, in compenso, la novità è di quelle che devono indurre a riflettere: se gli europei si sono finora sempre lamentati dell’eccessiva dipendenza dall’energia venduta loro dai russi, hanno peraltro approfittato più che volentieri della posizione di “unico cliente possibile”, o quasi, per i produttori di gas e petrolio russi. Ora questa posizione sta venendo a mancare e anzi si profila una feroce concorrenza tra acquirenti, con le fameliche economie dell’Asia assolutamente intenzionate a fare la parte del leone. Può essere l’occasione per un ripensamento serio della politica energetica (cioè ambientale) dell’Europa, o l’inizio di una lunga e pesante fase di incertezza sugli approvvigionamenti.

La guerra del latte fra Russia e Bielorussia

Dopo giorni di estrema tensione i governi di Mosca e Minsk hanno concordato una tregua nella loro distruttiva “guerra del latte”: fino a dicembre la Bielorussia rinuncerà a esportare sul mercato russo il latte in polvere che produce in enormi quantitativi e vende a prezzi molto bassi; in questo periodo le aziende russe del settore caseario utilizzeranno latte in polvere “nazionale”. Ma si tratta appunto di una tregua e niente più, perché all’orizzonte sono già ben visibili nuovi e bellicosi sviluppi nel turbolento rapporto tra quelli che in teoria dovrebbero essere i due partner di una “Unione”: un velenoso inasprimento dei controlli frontalieri e una stretta nelle forniture di gas russo.

Tutto questo suona ovviamente molto strano, trattandosi di due paesi che, come detto, dovrebbero far parte di una unione doganale e, in prospettiva, addirittura costituire insieme uno Stato confederale unico: ma fra teoria e pratica evidentemente c’è una bella differenza, e in questo caso giocano troppi fattori divisivi. Ci sono interessi contrastanti quando non contrapposti di alcuni settori delle due economie nazionali – quello agroalimentare in primo luogo, ma anche alcuni settori industriali – e ci sono le smanie “imperiali” di una parte dell’establilshment russo; ci sono le velleità indipendentiste di Aleksandr Lukashenka, che si appoggia agli ex nemici dell’Unione europea per tener testa a Mosca e ci sono i timori del governo russo di aprire una pericolosa “falla” nella struttura economico-finanziaria nazionale se si lasciasse troppo spazio ai più piccoli vicini. Inoltre, da parte russa, è ormai tradizione utilizzare il controllo sulle importazioni agroalimentari come strumento importante nelle relazioni politiche internazionali: ricordiamo le ricorrenti “guerre del pollo” con gli Stati uniti, che hanno provocato serissimi problemi agli allevatori del Midwest e non hanno avuto un ruolo secondario nel peggioramento delle relazioni con gli Usa di George Bush; e ricordiamo il bando “sanitario” alle importazioni di carne polacca, cui Varsavia ha reagito paralizzando per anni il processo di avvicinamento fra Russia e Unione europea.

Latticini in un supermarket russo

Latticini in un supermarket russo

Fatto sta che sulla questione dei prodotti caseari i due paesi sono arrivati ai ferri corti, fino al punto che il ministero dell’agricoltura di Mosca ha messo al bando sempre per “motivi sanitari” i latticini (oltre mille tipi di prodotti caseari) provenienti dal paese vicino e Minsk per risposta ha ristabilito i controlli doganali alla frontiera, sospesi da tredici anni – subito imitata dalla controparte, col risultato che i posti di confine sono diventati di colpo “caldi”. Per ora né da una parte né dall’altra si è voluto stringere troppo il rubinetto – cioè rendere lenti e problematici i controlli, ingorgando così il traffico merci – ma questo potrebbe accadere da un momento all’altro se la “tregua” non dovesse tenere.

Tantopiù che in ballo non c’è certamente solo il latte in polvere. Minsk ha accusato Mosca di invadere il mercato bielorusso con birra di produzione russa importata in modo iregolare e senza sottostare alle regole fiscali bielorusse; Gazprom da parte sua ha reso noto di attendersi quanto prima da Minsk il pagamento di 250 milioni di dollari di “bollette del gas” arretrate, senza di che scatterebbe un nuovo blocco delle forniture energetiche.

Tra Minsk e Mosca parecchi problemini

Non si può certo ancora parlare di una svolta, o anche solo di una revisione dei rapporti bilaterali: ma negli ultimi mesi tra il regime bielorusso e il potente vicino dell’est sembra siano venuti alla luce parecchi motivi di tensione. Il presidente Oleksandr Lukashenka, noto per la franchezza delle sue “uscite” politiche, ne ha voluto parlare in modo molto aperto nei giorni scorsi, incontrando il governatore della regione russa di Leningrado (n.b.: la città si chiama San Pietroburgo ormai da 17 anni, ma la sua regione continua a chiamarsi col nome “sovietico”), Valerij Serdjukov.

Il presidente bielorusso Lukashenka

Il presidente bielorusso Lukashenka

Il punto dolente, ha sottolineato Lukashenka, è costituito come al solito dai soldi: “Voi russi – ha detto – avete incominciato a chiudere i vostri mercati, e per le economie di esportazione come la nostra questo è un problema grave”. Per carità, nessun sospetto di cattiva volontà da parte del Cremlino, insiste il leader bielorusso, già definito da Usa e Ue “ultimo dittatore d’Europa” ma negli ultimi tempi nuovamente corteggiato in Occidente: “sputo in un occhio a chi mi viene a dire che vede una nostra tendenza ad allontanarci da Mosca”. E però, mica vanno bene le cose: “La colpa è della crisi, che non è stata provocata né da noi né dalla Russia… ma vedo anche che molti nostri rappresentanti si inchinano troppo negli uffici russi, devono smetterla, perché da parte russa c’è invece la tendenza a non mantenere gli impegni”, in particolare per quanto riguarda le forniture energetiche e i relativi prezzi: “Non è esattamente un atteggiamento corretto, e non ho paura di dirlo pubblicamente”. Il riferimento è al ventilato aumento dei prezzi del gas venduto a Minsk, di cui hanno recentemente parlato alcuni funzionari di Gazprom, facendo allarmare i loro interlocutori bielorussi, ancorati a un accordo dell’anno scorso che prevede un prezzo di 150 dollari per 1000 metri cubi (un terzo di quello che pagano gli altri clienti europei) per tutto il 2009.

Nonostante lo “sputo in un occhio”, il furbo Lukashenka sta in realtà tornando a giocare con disinvoltura su due tavoli, come già alcuni anni or sono: al tradizionale rapporto con Mosca negli ultimi mesi si è aggiunto di nuovo il tentativo di flirtare con un’Europa divisa e poco determinata nei suoi obiettivi. E’ bastata qualche modesto alleggerimento della repressione interna – peraltro già piuttosto limitata nella sua ampiezza, essendo rivolta contro poche decine di persone – per ottenere immediatamente da Bruxelles una sospensione delle simboliche “sanzioni” (che impedivano alle massime autorità bielorusse di viaggiare liberamente nella Ue); ed è bastata una curiosa “conversione” del più conosciuto oppositore democratico di Lukashenka, il professor Milinkievic (che ha chiamato i suoi amici a sostenere la politica “indipendente” del regime) a far sì che tra i 27 della Ue si aprisse una gara a chi sorride di più al regime bielorusso. In testa alla gara, per ora, paesi come Polonia e Lituania, che hanno tutto da guadagnare dalle aperture del paese confinante; più indietro i soliti “paesi forti” – Germania, Francia, ecc. – che vorrebbero capire meglio come svolgere il gioco senza infastidire Mosca. Suggello di queste nuovo clima, la commissaria alle relazioni esterne dell’Unione, Benita Ferrero-Waldner, ha messo in cantiere una visita a Minsk che dovrebbe attuarsi fra pochi giorni.