Un’amnistia in Russia? Incredibile ma…

La mensa nella colonia penale di Arkhangelsk

La mensa nella colonia penale di Arkhangelsk

Lo scetticismo è ovviamente più che lecito, data la fama (meritata) di regime manettaro che aleggia intorno a quello di Vladimir Putin: eppure questa volta sembra proprio che con l’accordo del presidente russo si stia preparando una misura di clemenza su larga scala, un’amnistia che coinvolgerebbe moltissimi detenuti nelle numerose carceri e nei campi di lavoro del paese. L’occasione sarebbe costituita dal ventesimo anniversario della costituzione – in arrivo tra pochissimo, il 12 dicembre – varata in circostanze non proprio esaltanti da Boris Eltsin nel 1993, quando sostituì la scomoda costituzione sovietica (che risaliva al 1978) poche settimane dopo aver sciolto a cannonate il parlamento, che la difendeva e che pagò con centinaia di morti la sua opposizione.

Ma ora qui non interessano tanto le circostanze e la qualità della costituzione eltsiniana, quanto la dichiarata volontà di usare l’anniversario per alleggerire l’insopportabile quantità di detenuti che il sistema carcerario russo tiene reclusi. Secondo quanto afferma il capo del Consiglio per i Diritti umani del Cremlino, Mikhail Fedotov, che è il principale promotore dell’amnistia, del provvedimento potrebbero beneficiare fra cinquanta e centomila persone attualmente detenute. Certo, è solo una piccola quota rispetto al totale (stimato) che è di quasi novecentomila carcerati, il che fa della Russia il terzo paese al mondo (dopo Stati uniti e Cina) per numero di reclusi; ma comunque è un passo importante.

Secondo Fedotov, la proposta di amnistia è stata approvata da Putin in persona, e infatti il portavoce del presidente, Dmitry Peskov, ha confermato che sarà il Cremlino a presentarla in parlamento nei prossimi giorni: il che, salvo sorprese o colpi di scena, dovrebbe garantire l’approvazione quasi automatica.

Incerto è invece, al momento, il criterio con cui l’amnistia verrebbe applicata – a quali tipi di reato, a quali entità di pena e così via, il che spiega la vaghezza sul numero degli effettivi beneficiari. E sulla loro identità: Peskov si è rifiutato di dire se nella misura di clemenza potrebbe rientrare per esempio Mikhail Khodorkovskij, l’ex oligarca diventato quasi un simbolo per l’opposizione liberale, cui spetterebbero ancora tre anni e rotti di carcere, ma che in base a una sentenza recente dovrebbe poter invece uscire nel 2014. Quasi certo invece che l’amnistia riguarderebbe le due ragazze del gruppo Pussy Riot ancora detenute, così come taglierebbe corto con alcuni processi in corso tra cui quello ai trenta attivisti di Greenpeace arrestati (e ora liberi su cauzione) dopo l'”assalto” a una piattaforma petrolifera nell’oceano Artico.

Il grosso dei beneficiari dell’amnistia, comunque, sarebbe costituito da persone in carcere (o in procinto di entrarci) per violazione delle severe leggi sull’immigrazione, alle quali verrebbe offerta quindi la possibilità di richiedere legalmente un permesso di soggiorno per lavoro, invece di essere espulse come normalmente accade a coloro che vengono trovati senza documenti.

Un “pacco” miliardario nelle carceri russe

Truffe e varie operazioni fraudolente per oltre 10 miliardi di rubli (250 milioni di euro) sono state scoperte da un’inchiesta interna al Servizio penitenziario federale russo (FCIN in sigla). La notizia non rivela niente che ai cittadini russi non sia noto da sempre – la corruzione all’interno del mastodontico sistema penitenziario è una costante fin dai tempi di Pietro il Grande, e ovviamente anche da prima, salvo essere chiamata con altri nomi – ma fornisce alcuni interessanti flash sui nuovi modi in cui il sistema creato per punire i reati finisce per incoraggiarne altri ai massimi livelli.

Il braccialetto elettronico (da caviglia) della truffa

Il braccialetto elettronico (da caviglia) della truffa

La truffa più assurda, riportata dai media locali con gran rilievo, è quella che ha visto il FCIN ordinare e acquistare a caro prezzo – per una somma totale di oltre un miliardo di rubli, circa 25 milioni di euro – una grossa partita di braccialetti elettronici per la sorveglianza dei detenuti agli arresti domiciliari. Gli apparecchi, dall’aspetto simile a quello di semplici orologini digitali da polso, sono stati ordinati personalmente dall’ex capo del servizio penitenziario, Aleksandr Reimer, a una ditta praticamente sconosciuta, in quantità molto superiore alle necessità (la detenzione ai domiciliari non è una misura molto usata in Russia) e saltando ogni verifica sulla qualità del prodotto fornito. Il risultato è stato un “pacco” da commedia alla napoletana, visto che le decine di migliaia di braccialetti arrivati a destinazione si sono rivelati degli aggeggi del tutto inutili perché privi dell’elemento più importante (e pregiato), cioè il collegamento con uno dei sistemi satellitari di geolocalizzazione, il classico GPS o il più patriottico (tutto made in Russia) Glonass. In pratica erano davvero degli orologini di plastica da pochi centesimi.

A questa truffa vanno poi sommate decine e decine di altri casi più “classici”, fondamentalmente basati su estorsioni e bustarelle imposte dai responsabili del servizio penitenziario ai fornitori, su materiali non rispondenti ai capitolati d’acquisto e via dicendo; ed è chiaro che la somma totale di 10 miliardi di rubli, essendo frutto di un’inchiesta interna, è molto probabilmente assai inferiore alla realtà.

Come che sia, sembrerebbe che davvero il presidente Vladimir Putin stia cercando di ripulire almeno in parte le spaventose incrostazioni di corruzione e malaffare che appesantiscono in modo micidiale tutte le strutture amministrative. Il presidente ha indicato questa come una delle massime priorità del suo terzo mandato, ed effettivamente è ormai da diversi mesi che le notizie relative a inchieste e repulisti nei ministeri e nei servizi federali stanno occupando le prime pagine. Subito prima delle truffe nel servizio penitenziario erano state diffuse le notizie sull’ammontare dei danni provocati dalle malversazioni all’interno di uno dei sancta sanctorum del regime russo, il servizio di amministrazione e approvvigionamento della difesa (Oboronservis), in cui la sola vendita illegale di proprietà immobiliari del dipartimento ha portato oltre 13 miliardi di rubli di danni per l’erario – ed enormi guadagni illeciti nelle tasche di una serie di funzionari in divisa. Per lo scandalo Oboronservis sono finora finiti in carcere parecchi ufficiali d’alto grado, a partire dall’ex ministro della difesa Anatoly Serdyukov.

Resta tuttavia da capire se la pulizia che viene ora sbandierata su tutti i media sia effettivamente tale o se non sia condotta in modo da colpire soltanto alcuni casi indifendibili lasciando sostanzialmente inalterato il sistema che consente alla corruzione di proliferare. La Russia, ricordiamo, è agli ultimi posti in assoluto nella graduatoria mondiale sulla trasparenza e la corruzione nelle strutture amministrative pubbliche. In ogni caso, va comunque notato, il rilievo e lo spazio che queste vicende hanno sui media non potrà non avere effetti sull’opinione pubblica e sulla capacità stessa dei media di affrontare più in generale il tema della corruzione.

(pubblicato su Globalist.it il 29 marzo 2013)

Boris Berezovsky, il giallo del principe oscuro

Berezovsky a Londra

Berezovsky a Londra

Gli esperti britannici hanno subito escluso che in questo oscuro affare ci sia di mezzo qualcosa di eccezionale – in sostanza che Boris Abramovic Berezovsky sia stato ucciso da misteriose armi nucleari, chimiche o batteriologiche. La sua casa, dove è morto ieri, è stata passata al setaccio e definita “pulita” dalla squadra dei tecnici inviati a controllarla. E questo ci consola, perché allontana il pensiero che mostruose e micidiali sostanze siano in giro intorno a noi, nelle mani di oscuri killer venuti dal buio. Ma la rassicurazione degli esperti non toglie comunque niente al mistero che circonda la morte dell’ex magnate russo nella sua casa fuori Londra. Morte per cause naturali, suicidio o omicidio?

Si trattasse di un signor X qualsiasi, non ci sarebbero dubbi. Un uomo di 67 anni, malato e già passato negli ultimi mesi attraverso ripetuti attacchi cardiaci, che muore da solo nel bagno di casa sua e che non sembra presentare sul corpo lesioni traumatiche di nessun tipo: chi andrebbe a pensare a cose strane? Un infarto o un ictus, via, e riposi in pace.

Ma Boris Berezovsky non era un signor X qualsiasi: era un personaggio importante, con un passato estremamente tumultuoso, passato attraverso una quantità di ruoli e di prove che pochi al mondo possono dire di aver vissuto, da ricercatore dell’Accademia delle scienze a mercante disinvolto, da boss criminale a uomo più influente della Russia; da avventuriero a padrone dei destini di un enorme Paese, da “facitore di re” e burattinaio di presidenti a esule perseguitato, coinvolto in ogni trama e ogni intrigo di una sceneggiatura – quella della Russia post-sovietica – che di trame e intrighi in questi ultimi vent’anni ne ha offerti a volontà. Un personaggio caduto negli ultimi tempi molto in basso: in grave difficoltà finanziaria per una serie di scommesse troppo azzardate lanciate e perdute, in grave difficoltà politica per essersi troppo esposto e troppo fidato della protezione e benevolenza del Regno Unito, dove si era rifugiato negli ultimi anni per proseguire la sua sfida a Vladimir Putin.

L’assurda causa da lui intentata contro il super-oligarca Roman Abramovic, malamente perduta l’estate scorsa davanti a un tribunale britannico e trasformatasi per lui in un disastro finanziario con la condanna a pagare oltre 35 milioni di sterline, è stata forse la sua sconfitta più grave e invalidante: più delle condanne penali inflittegli dai tribunali russi in contumacia, più degli attentati degli anni ’90 da cui è uscito vivo per miracolo. Dicono che ormai avesse perso praticamente tutto il suo patrimonio e dovesse chiedere piccoli prestiti agli amici: qualcosa che per un uomo con il suo passato doveva essere il massimo dell’umiliazione. Se è vero che negli ultimi giorni aveva confidato ad alcuni amici e anche a un giornalista venuto a intervistarlo che la sua vita “non aveva più senso”, potrebbe essere credibile l’ipotesi di un suicidio.

Eppure anche questo non basta a chiudere la vicenda con tranquillità. Perché Boris Berezovsky non era di quegli uomini che a un certo punto mollano – o quantomeno non dava l’idea di esserlo. Si era già trovato varie volte nei guai, ogni volta resuscitando in un modo o nell’altro. E il suo coinvolgimento (a vario titolo, volta a volta come vittima, testimone, o presunto colpevole) in una serie di delitti e di fatti sanguinosi – il più famoso ora è il misterioso assassinio a Londra nel 2006 del suo amico ex agente segreto Aleksandr Litvinenko, avvelenato con del polonio radioattivo nel tè, ma di vicende oscure nella vita dell’ex tycoon russo ce ne sono a dozzine – autorizza anche a pensare che la sua morte possa esser stata cercata e ottenuta in modo deliberato da potenti nemici.

Putin, da lui definito il suo massimo nemico e persecutore, con i potenti e sempre tenebrosi servizi segreti russi sono ovviamente i primi cui vien da pensare se si parla di omicidio, ma è un riflesso condizionato dai media e del tutto privo di riscontri: in realtà nell’elenco dei nemici ci sono anche i rivali in affari, c’è la mafia georgiana con cui ha avuto a che fare all’inizio della sua carriera, e c’è quella cecena: non dimentichiamo che il nostro Berezovsky ha sempre avuto un ruolo importante di mediatore e manovratore nei rapporti tra la guerriglia cecena e il mondo esterno, era molto amico di un leader ceceno degli anni ’90 riparato a Londra, Akhmed Zakayev, e feroce nemico del boss ceceno di oggi, Ramzan Kadyrov. Né va dimenticato che Berezovsky, ebreo russo con la doppia cittadinanza russa e israeliana, è stato anche una importante pedina della diplomazia segreta dei governi di Israele e potrebbe quindi anche essere finito nel mirino di altre organizzazioni e altre mafie. Ormai lo sanno tutti che dietro le facciate rispettabili dei palazzi di Chelsea e delle magioni della Thames Valley si muovo moltissimi interessi oscuri e moltissime organizzazioni che di limpido hanno ben poco.

Resta dunque almeno per adesso un necessario mistero sulla fine improvvisa di Berezovsky. In attesa che un’autopsia faccia chiarezza (ma il dubbio resterà sempre), questo stesso mistero varrà comunque da tributo a un personaggio straordinario, uno di quei “principi oscuri” che nel bene e nel male segnano la storia di un Paese e, pur sconfitti, difficilmente finiscono nel dimenticatoio.

(pubblicato su Globalist il 24 marzo 2013)

A Mosca il governo si raddoppia lo stipendio

Una riunione di Putin con i suoi ministri e collaboratori

Una riunione di Putin con i suoi ministri e collaboratori

Raddoppiati gli stipendi dei funzionari del governo federale e dell’amministrazione presidenziale in Russia. Da un giorno all’altro. Anche il salario medio della generalità dei cittadini russi raddoppierà – annuncia il governo – ma in tempi un po’ più lunghi, cioè nell’arco dei prossimi 17 anni: da qui al 2030. Nel frattempo, la forbice della diseguaglianza tra persone comuni e funzionari dello Stato andrà inevitabilmente aumentando ancora. Per avere un’idea dello stato attuale: lo stipendio medio in Russia è di circa 800 euro al mese (secondo i dati forniti dal governo, piuttosto ottimistici); quello dei funzionari governativi di primo livello, dopo gli aumenti, è di circa 8.000 euro.
In tempi di crisi, che colpisce pesantemente anche nel grande paese eurasiatico, sia pur con minore virulenza che nell’Europa occidentale, la notizia degli aumenti dati ai funzionari è stata tenuta per un po’ al riparo dai media: ma alla fine è stato inevitabile ammetterla, dopo che l’edizione russa della rivista Forbes l’aveva rivelata. Gli aumenti sono stati decisi dal presidente Vladimir Putin già in settembre, e inizialmente riguardavano soltanto i funzionari della sua amministrazione (una sorta di governo parallelo, con poteri in parte sovrapposti a quelli del governo federale), il cui stipendio medio veniva sostanzialmente raddoppiato “per equipararlo alle paghe reali nel settore privato” (presumibilmente quelle dei bancari e quelle dei grandi gruppi finanziari e industriali).
La notizia dell’aumento, pur tenuta lontana dal grande pubblico, aveva immediatamente provocato il risentimento e le lamentele dei funzionari del governo federale, offesi per essere considerati “di serie B” rispetto allo staff dell’amministrazione del Kremlino; pare ci siano state proteste anche piuttosto rumorose nei corridoi dei palazzi governativi: fatto sta che in novembre Putin ha emesso un nuovo decreto, aumentando più o meno nella stessa misura anche gli stipendi dello staff del governo federale, con effetto a partire dal 1 gennaio. Il mese scorso la notizia è apparsa su Forbes-Russia e ieri, finalmente, il portavoce di Putin, Dmitrij Peskov, si è deciso a confermare tutto, giustificando gli aumenti con una serie di motivazioni molto varie.
In primo luogo viene citato il fatto che gli stipendi delle due amministrazioni erano troppo bassi se paragonati non solo con il settore privato ma anche con altri reparti importanti dell’apparato di Stato, come lo Stato maggiore delle forze armate o l’amministrazione del FSB, i servizi di sicurezza; in secondo luogo si cita la necessità di razionalizzare il sistema retributivo dei funzionari, che finora si è articolato non solo sugli stipendi ma su una serie di bonus importanti (una tradizione ereditata direttamente dal periodo sovietico) che riguardano l’accesso alla sanità, ai luoghi di vacanza, ai trasporti e persino alla spesa quotidiana. Con il nuovo sistema – ha detto Peskov senza elaborare – molti di questi bonus sono stati monetizzati.
Infine, l’aumento viene presentato come un antidoto cruciale alla corruzione dei funzionari, sulla scorta di quella che sembra essere una discreta campagna lanciata da Putin per combattere il fenomeno. Nei mesi scorsi aumenti retributivi molto forti avevano interessato – sempre con questa motivazione: lotta alla corruzione – anche i funzionari dei servizi segreti e quelli del servizio investigativo della Procura (in pratica, la nostra polizia giudiziaria) e del parallelo servizio investigativo dell’Ispettorato delle finanze (la polizia tributaria). La Russia, ricordiamo, è considerata (e oggettivamente è) uno dei Paesi più corrotti del mondo – l’organizzazione internazionale Transparency International l’ha collocata al 133mo posto su 174 paesi del mondo quanto a “pulizia” delle sue pratiche amministrative – e il governo stesso ha stimato l’anno scorso che il peso delle bustarelle sulla spesa sostenuta per i contratti statali sia superiore a mille miliardi di rubli, circa 25 miliardi di euro. Un peso evidentemente insopportabile anche per uno Stato pieno di soldi come quello russo.

(pubblicato su Globalist il 13 marzo 2013)

Sondaggio in Russia: il sistema sovietico è il migliore

cccp-picL’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, in sigla URSS, ha cessato di esistere nel dicembre 1991, al termine di un rapido processo di disintegrazione avviato e compiuto nell’incredulità generale nel corso dei due anni precedenti. Da allora ad oggi in Russia (ma in Occidente già da molto prima) l’URSS e il suo sistema politico, economico e sociale sono diventati una sorta di paradigma del male, il simbolo stesso di quanto di peggio fosse concepibile da mente umana in materia di vita pubblica: una demonizzazione così intensa e profonda da portare addirittura alla rimozione della memoria, alla cancellazione – in pratica – di un lungo e cruciale periodo della storia dell’umanità, caratterizzato dall'”esperimento socialista” (che tanto peso ebbe anche nella nascita e nella crescita del nostro welfare state occidentale), e alla sua riduzione a vuote formulette esorcizzanti. Anche nel dibattito politico odierno, quando si vuol esprimere il giudizio più negativo e inappellabile su un’idea o una proposta si dice – tanto da destra quanto da sinistra, si badi – che è qualcosa di “sovietico”.

Bene: e allora com’è che a distanza di ventun anni la maggioranza dei cittadini russi (cioè di coloro che hanno vissuto direttamente sulla propria pelle quell’esperimento, e non per un breve momento ma per diverse generazioni) si dice convinta che quel sistema sarebbe ancora oggi il migliore possibile?

L’inchiesta è stata condotta dal Centro Levada, un istituto russo di ricerche demoscopiche attendibile e serio, non sospetto di condurre operazioni politiche suggerite dall’alto né tantomeno di alimentare ad arte nostalgie improprie. I risultati del sondaggio dicono che oggi (il rilevamento è stato condotto nel gennaio 2013) il 36 per cento dei russi considera il sistema politico dell’URSS il migliore e più desiderabile per il proprio Paese, contro il 22 che vorrebbe vivere in un sistema di democrazia occidentale e solo il 17 che considera come migliore il sistema vigente di “democrazia guidata” creato di Vladimir Putin. Un anno fa le percentuali di gradimento erano rispettivamente del 29, 29 e 20 per cento.

Ma forse ancor più sorprendente è la percentuale di coloro che considerano “ideale” il sistema di economia pianificata e di proprietà statale che aveva l’URSS: si tratta di ben il 51 per cento dei cittadini, contro il 29 per cento che dichiara di preferire il sistema del libero mercato fondato sulla proprietà privata – anche in questo caso con un netto aumento dei primi e un netto calo dei secondi nel corso dell’ultimo anno (nel gennaio 2012 erano 49 contro 36 per cento).

Ora, è chiaro che ci sono moltissimi fattori soggettivi che portano a un risultato per noi così sconcertante, ed è altrettanto chiaro che un conto è esprimere un parere durante un’inchiesta sociologica e un altro è agire concretamente per il ripristino del vecchio sistema (tant’è che i risultati elettorali del Partito Comunista Russo, per quanto decorosi, sono piuttosto lontani da queste percentuali).

Ma resta pur sempre una domanda che non dovrebbe essere confinata tra le curiosità e le stranezze folkloristiche del grande Paese eurasiatico: non è che per caso la sepoltura del sistema denominato “socialismo reale” è stata un po’ troppo prematura, e ha impedito di guardare più lontano, a quello che potrebbe in realtà essere un modello diverso e più avanzato di società? O in altre parole, non ci sarà in definitiva qualcosa di profondamente sbagliato nel “modello vincente” uscito dalla Guerra Fredda e considerato da allora come l’unico possibile in questo mondo?

(pubblicato su Globalist.it l’8 febbraio 2013)

Niente adozioni russe per inglesi e francesi?

Manifestazione per i diritti degli omosessuali in Russia

Manifestazione per i diritti degli omosessuali in Russia

La svolta legislativa liberale sul tema dei matrimoni omosessuali in Francia e in Gran Bretagna potrebbe avere conseguenze sgradevoli su un versante collaterale, quello delle adozioni internazionali. In Russia per esempio si sta profilando una sorta di veto complessivo alle adozioni di bambini russi da parte di coppie inglesi e francesi, perché i nuovi assetti di legge che stanno emergendo a Londra e a Parigi, combinati con i termini poco precisi delle convenzioni stipulate fra questi Paesi e Mosca in materia di adozioni, renderebbero impossibile garantire ai bambini adottati “la soddisfazione del loro diritto ad avere una madre e un padre”. In questo senso si sono già espressi diversi deputati del partito di maggioranza alla Duma, il delegato del ministero degli esteri per i diritti umani Konstantin Dolgov e soprattutto il Garante per l’infanzia Pavel Astakhov, da sempre fiero oppositore dei matrimoni omosessuali.

Gli esperti che in tempi recenti hanno lavorato sulle convenzioni internazionali in materia di adozione (quella con la Francia è stata stipulata nell’autunno del 2011) sottolineano che occorrerà comunque rivedere quei testi alla luce delle nuove leggi che in alcuni paesi stanno modificando il diritto di famiglia introducendo la possibilità del matrimonio per persone dello stesso sesso: ma non sarà un’operazione semplice, evidentemente, anche perché non è detto che i governi interessati siano disponibili a sottoscrivere in documenti ufficiali internazionali forme discriminatorie a danno di alcune categorie di propri cittadini.

D’altra parte, è chiaro che il clima politico-sociale in Russia è oggi ferocemente ostile ai diritti degli omosessuali. L’ampiezza del consenso che sta accompagnando l’iter parlamentare di una legge odiosa e discriminatoria come quella sulla “propaganda gay”, in nome della “protezione dell’infanzia”, la dice lunga a questo riguardo. La legge – che vieta e punisce severamente qualunque manifestazione “a favore dell’omosessualità” (comprese, presumibilmente e a totale arbitrio di poliziotti e magistrati, le manifestazioni d’affetto tra persone dello stesso sesso) in qualunque luogo accessibile a minori – è stata approvata a stragrande maggioranza dalla Duma in prima lettura e in primavera andrà al voto definitivo e alla firma del presidente Putin: pochi dubbi sull’esito di questi passaggi.

Le massime gerarchie della chiesa ortodossa russa stanno a loro volta conducendo una campagna furibonda anti-gay, e parecchi preti e suore sono addirittura in prima fila nella repressione violenta, a suon di bastonate, di qualsiasi tentativo di manifestazione pro-diritti degli omosessuali: e data la sempre più stretta relazione fra il Patriarcato di Mosca e il Kremlino, è difficile pensare che Vladimir Putin voglia compiere un gesto controcorrente e bloccare la legge proprio sul gradino finale.

Va anche tenuto conto del fatto che ostilità e pregiudizi sono in forte crescita anche sulla questione delle adozioni internazionali tout court, a prescindere dal genere delle coppie richiedenti. A fine anno è entrata in vigore, con qualche opposizione di tipo liberale ma senza grandi difficoltà politiche né proteste popolari, la legge “ad hoc” che interdisce le adozioni di bambini russi ai cittadini statunitensi – una esplicita ritorsione alla legge Usa che colpisce i funzionari russi responsabili di violazioni dei diritti umani nel loro Paese.

Putin ha firmato la legge nonostante il formale “no” del suo ministro degli esteri Lavrov, che giustamente vi ha visto un modo sciocco e pericoloso di calpestare faticosi accordi sottoscritti pochi mesi prima con Washington; e la motivazione di fondo che lo ha spinto è la stessa che sta dietro agli atteggiamenti anti-gay dei laici, cioè il temutissimo declino demografico del Paese, diventato ormai da tempo un’ossessione per Putin e non solo per lui. “Prima che dei diritti degli omosessuali il mio dovere è di preoccuparmi delle coppie che fanno figli”, ha detto il presidente qualche settimana fa.

E ancora ieri l’istituto ufficiale di statistica ha diffuso gli ultimi dati sull’andamento demografico da cui si vede con chiarezza che il saldo naturale della popolazione – al netto quindi dell’immigrazione – continua ad essere negativo, anche se di poco (nel 2012 circa 4000 eccedenze dei morti sui nati vivi). Su questo sfondo, è naturale che la domanda “perché dobbiamo dare i nostri bambini a coppie straniere?” abbia una sua forte presa sulla gente e, di conseguenza, sui politici. Peccato che, però, della sorte di decine e decine di migliaia di bambini chiusi negli istituti, in condizioni spesso orribili e con poche prospettive di una vita normale, nessuno sembra preoccuparsi granché.

(pubblicato su Globalist.it il 7 febbraio 2013)

Nuovo codice penale in Ucraina

Da tre giorni è in vigore in Ucraina il nuovo codice di procedura penale, che va a sostituire il precedente – introdotto negli anni sessanta e rimasto praticamente inalterato da allora – e dovrebbe portare a un significativo miglioramento nei commissariati di polizia, nei tribunali e nelle carceri. Il primo miglioramento consiste nella riduzione netta della detenzione in attesa di giudizio, che da oggi non potrà superare i dodici mesi per i reati più gravi e i sei per quelli minori, contro i tre anni previsti in precedenza, che spesso diventavano una condanna extragiudiziale comminata arbitrariamente. Altro passo avanti cruciale riguarda le confessioni, da oggi valide come prova solo se prodotte in tribunale, mentre finora erano valide anche se estorte dalla polizia nei commissariati – con metodi che si possono immaginare. Vengono poi introdotti concetti e pratiche “civili” come gli arresti domiciliari, la libertà su cauzione, la possibilità del concordato (davanti al giudice) tra parti lese e offensori, la responsabilità penale dei funzionari di polizia che sbagliano; infine, viene introdotta la giuria nei processi – almeno in quelli per reati gravi per i quali è possibile la condanna all’ergastolo.

Tutte cose positive: ma con dei lati che possono invece portare a riflessi negativi. In primo luogo, perché buona parte dei “vantaggi” che il nuovo codice riconosce agli imputati sono in effetti alla portata solo di chi non ha problemi economici: non solo per la libertà su cauzione, ma anche perché le nuove, vaste attribuzioni di competenza agli avvocati cadono in una situazione in cui questi ultimi sono ancora pochi, cari e per nulla disposti a offrire gratuito patrocinio; mancano gli avvocati d’ufficio e niente fa credere che tutto ciò possa cambiare in tempi brevi. Inoltre  molti sospettano che le nuove misure finiscano per ampliare la già vasta discrezionalità dei giudici – e con essa la propensione a farsi corrompere, già altissima.

Infine, e collegata a quest’ultima considerazione, resta il fatto che la legge può esser ben studiata quanto si vuole, ma gli uomini chiamati ad applicarla – poliziotti, avvocati, magistrati e guardie carcerarie – restano gli stessi di prima, con la stessa mentalità e le stesse pessime abitudini: per arrivare a un “clima giuridico” davvero nuovo, che faccia uscire il paese dall’attuale stato di “barbarie giudiziaria” (come è stata definita dai legislatori che hanno curato il nuovo codice), ci vorranno probabilmente molti anni di lavoro. Da qualche parte, comunque, bisogna pur incominciare…

Sciopero a sangue alla Ford russa

La linea di montaggio della Focus alla Ford-Sollers di Vsevolozhsk

Tensione allo stabilimento Ford-Sollers di Vsevolozhsk, non lontano da San Pietroburgo, dove la direzione ha annunciato la messa in ferie obbligatorie (a paga ridotta) dei dipendenti a partire da metà dicembre. I lavoratori hanno reagito con uno sciopero bianco e con una inedita “giornata della donazione di sangue”: i lavoratori che donano il sangue, dice la legge, hanno diritto a due giorni di ferie pagate.

La vertenza è iniziata ai primi di novembre, quando l’azienda – una joint venture tra la Ford Motors Co. e la russa Sollers – ha annunciato che avendo raggiunto in anticipo gli obiettivi di produzione per il 2012 le linee sarebbero state fermate per due settimane alla fine dell’anno, con la messa in ferie obbligatorie a paga ridotta (solo i due terzi del salario base) di tutti o quasi i dipendenti. I sindacati interni – tra i più attivi e dinamici di tutta la Russia fin dalla nascita dello stabilimento, negli anni novanta – hanno reagito proclamando uno sciopero bianco, in cui cioè i lavoratori si attengono strettamente al regolamento, soprattutto in materia di sicurezza, il che produce un forte rallentamento della produzione. In pratica, questo significa che operai e impiegati smettono di avere tutte quelle iniziative che di norma accelerano il lavoro, così come smettono di fare gli straordinari o anche solo quei cinque minuti in più per finire un certo lavoro in atto. Questo sciopero bianco sta andando avanti da una settimana e proseguirà ad oltranza; finora la direzione afferma che non c’è stata alcuna conseguenza sul volume della produzione, ma fonti sindacali parlano di una diminuzione del 10-15 per cento, ammortizzata finora col ricorso agli stock. A Vsevolozhsk si producono la Focus e la Mondeo.

Ma se lo sciopero bianco è una forma di lotta abbastanza diffusa nelle aziende russe, l’altro strumento messo a punto dai sindacati è invece inedito: dato che la legge impone al datore di lavoro di dare due giorni di ferie a paga piena ai lavoratori che donano il sangue, i sindacati stanno organizzando una “giornata dei donatori” in cui tutti o comunque molti dei 3000 dipendenti dello stabilimento di Vsevolozhsk si presenteranno ai centri appositi per donare il sangue, ottenendo così l’effetto di paralizzare per due giorni la produzione senza neanche scioperare.

Migranti contro la "Marcia dei russi"

Militanti di estrema destra manifestano a Mosca

La Federazione dei migranti in Russia ha chiesto al sindaco di Mosca di tornare sulla sua decisione di dare il via libera a ben due manifestazioni dell’estrema destra contro gli immigrati, in programma per domenica nella capitale. Secondo il leader della Federazione, Muhammad Amin Majumder, i due eventi previsti sotto il nome ormai “classico” di Marcia dei russi rappresentano una sfida e un pericolo per decine di migliaia di immigrati regolari che vivono e lavorano a Mosca e che hanno la domenica – che oltre a tutto in questa occasione coincide anche con la festa denominata “Giorno dell’unità nazionale”, istituita per prendere il posto del non più celebrato anniversario della Rivoluzione d’Ottobre – come unico giorno per andare a spasso per la città e godersi la bellezza della capitale.

Diverse organizzazioni hanno già rivolto analoghe istanze al municipio moscovita, protestando contro l’autorizzazione concessa alle formazioni nazionaliste di estrema destra. La Federazione dei migranti, insieme ad altre sei organizzazioni che rappresentano la grande massa dei lavoratori (soprattutto centroasiatici) stranieri residenti a Mosca, ha invocato il fatto che la Marcia dei russi viola apertamente la legge incitando de facto all’odio razziale. A tutti il municipio ha risposto affermando di non avere strumenti legali per impedire la Marcia dei Russi; agli organizzatori della marcia, il sindaco ha semplicemente ricordato che saranno ritenuti responsabili di eventuali incidenti. L’anno scorso la Marcia si accompagnò a una lunga serie di scontri e atti di violenza culminati nell’uccisione di un immigrato a poca distanza dal Cremlino.

Ucraina alle urne

Seggio elettorale a Kiev

Sono in corso le operazioni di voto in Ucraina per il rinnovo della Rada (parlamento), fra accuse e recriminazioni che fanno temere (o sperare, a seconda dei punti di vista) una ripetizione dello scenario di otto anni fa, quando l’esito delle elezioni presidenziali, falsato da frodi e brogli, venne contestato e poi azzerato dalla “rivoluzione arancione”, con l’attivo sostegno degli Stati uniti e dell’Unione europea. Oggi, nonostante le condizioni abbastanza serie in cui versano i conti del paese e quelli della maggior parte dei suoi abitanti, la campagna elettorale si è chiusa quasi senza parlare di economia, mentre tutta l’attenzione, interna e internazionale, è rimasta puntata quasi esclusivamente sulla politica (cioè sulla deriva autoritaria del governo) e sul processo elettorale stesso, monitorato, come il voto, da un’enorme quantità di osservatori.

Per la maggior parte dei media occidentali, e ovviamente per l’opposizione liberale e nazionalista, la questione della “pulizia” e correttezza delle elezioni non si pone neanche: da tempo la strategia scelta è quella di delegittimare “a priori” i risultati elettorali, affermando che saranno comunque falsati, sia da veri e propri brogli, sia dall’incarcerazione della leader arancione Yulija Timoshenko, sia soprattutto dal fatto che il governo – guidato dal premier Mykola Azarov – usa senza ritegno minacce, pressioni e risorse pubbliche per imporre i propri candidati o comprare i più forti candidati indipendenti. Le accuse sono state amplificate dall’organizzazione di monitoraggio elettorale Opora (fortemente sovvenzionata dall’Occidente e in particolare dal Canada, dove risiede la più forte comunità di espatriati ucraini), che ha già rilevato e reso pubbliche centinaia di violazioni della legge elettorale da parte del Partito delle Regioni, prima ancora del voto. Figurarsi dopo. E’ una strategia che ricalca come detto quella che portò alla Rivoluzione arancione dell’inverno 2004-2005 ma che oggi difficilmente potrà portare risultati, visto che la popolazione non sembra particolarmente incline a scendere in piazza per contestare l’eventuale (assai probabile) vittoria del partito di Yanukovich. Tra gli ucraini – che pur si recano alle urne disciplinatamente – sembrano piuttosto prevalere la sfiducia e il distacco nei confronti dell’intera classe politica, o perlomeno di quella che fa capo ai due schieramenti principali, ritenuta (non a torto) tutta quanta corrotta e arrogante. Sarà in questo senso interessante vedere i risultati dei due partiti outsider: “Udar”, colpo, creato dal pugile campione mondiale in carica dei pesi massimi WBC, Vitaliy Klychko, e alleato con gli arancioni; e “Ucraina-Avanti!”, della giovane Natalia Korolevska, un’imprenditrice che sosteneva la Timoshenko ma quest’anno l’ha lasciata lanciando un suo proprio movimento indipendente (che secondo molti mira ad allearsi con i “regionali” in cambio di qualche posto governativo) e spendendo un’enormità di quattrini per una campagna elettorale massiccia e pervasiva che ha arruolato fra gli altri anche il popolare calciatore Andriy Shevchenko.

Non si può dire comunque che l’opposizione liberal-nazionalista, guidata da Arseny Yatsenyuk, stia facendo molto per vincere: è vero che i diversi partiti hanno compiuto uno sforzo per unificarsi in un cartello elettorale più compatto e robusto, ma il programma di questo cartello non brilla per parole d’ordine trascinanti e in ultima analisi si riduce al concetto di “liberare il Paese da Yanukovich”. Le proteste per gli “attentati alla libertà” si riducono alla fine alla sola richiesta di far uscire di galera la Timoshenko; quelle per il “bavaglio alla libertà di stampa” non sembrano sensate, visto che la maggior parte dei grandi media sono nelle mani di oligarchi che dividono le loro simpatie equamente fra l’opposizione e il governo; anche la legge sulla diffamazione a mezzo stampa, che avrebbe introdotto pene detentive severe per i colpevoli di articoli denigratori e che era stata considerata uno strumento per intimidire e neutralizzare i media e le loro inchieste sulla corruzione governativa, è stata ritirata e se ne riparlerà solo dopo le elezioni. C’è poi la questione della nuova legge sulla lingua (in base alla quale il russo è diventato seconda lingua ufficiale nelle regioni dove c’è una consistente minoranza russofona), che ha diviso il Paese e provocato molte tensioni con i nazionalisti: ma è un tema che in definitiva rafforza la base sociale del Partito delle Regioni (che ha mantenuto una sua promessa) e che non mobilita più che tanto gli avversari, solo alcuni dei quali sono nazionalisti convinti. Resta infine l’argomento dei modesti successi che il governo può ascrivere a suo merito: il discreto successo (in termini di incassi e di nuove infrastrutture) degli Europei di calcio, la sordina (temporanea) messa ai litigi con la Russia e poco altro.

Nonostante i sondaggi, i pronostici sull’esito del voto restano piuttosto incerti. Il nuovo sistema elettorale “a due livelli” (metà dei 450 seggi della Rada sono assegnati nel collegio unico nazionale su liste di partito col proporzionale, l’altra metà viene eletta in 225 collegi uninominali) complica notevolmente le previsioni: il cartello dell’opposizione unita – cioè il blocco “Patria” della Timoshenko alleato con il partito “Udar” di Klychko – dovrebbe avere la maggioranza relativa (intorno al 36-38 per cento) nel voto proporzionale, contro meno del 30 per cento per il Partito delle Regioni; ma nei collegi uninominali la situazione sarebbe invece totalmente favorevole a quest’ultimo, che potrebbe nel complesso non solo conquistare la maggioranza assoluta dei seggi ma forse addirittura arrivare vicino alla soglia dei due terzi (300 seggi) necessaria per cambiare la costituzione. Se non ci riuscirà, risulteranno un’altra volta decisivi, come nella Rada uscente, i candidati indipendenti e i partiti minori: in particolare i comunisti del PcU (oggi alleati dei “regionali”) e la destra nazionalista del partito “Svoboda” (libertà), gli unici per i quali è dato per certo il passaggio della soglia di sbarramento del 5 % dei voti.