In Russia commemorate le vittime di Stalin

L'esterno di un campo del Gulag

L'esterno di un campo del Gulag

Un po’ in tutta la Russia si sono svolte oggi cerimonie commemorative in memoria delle vittime cadute a milioni negli anni della repressione staliniana. La giornata del 30 ottobre è stata dedicata ai prigionieri politici fin dal 1974 (dalle associazioni di ex detenuti) e ufficializzata come tale dal Soviet supremo della Federazione russa nel 1990, dunque ancora in epoca sovietica, durante la perestrojka.

Non si può dire che la partecipazione popolare sia stata molto grande – alcune centinaia di persone nella capitale, di meno in altre località – ma il fatto significativo è che nell’occasione il presidente Dmitrij Medvedev ha voluto diffondere un messaggio in cui le repressioni e i crimini di Stalin vengono condannati con toni molto duri. Non è poco, in un paese dove tuttora Stalin è considerato un personaggio storico fra i più importanti e positivi (in un apposito “concorso” televisivo il dittatore è arrivato a raccogliere consensi in misura appena minore di quelli raccolti dal leggendario principe medievale Aleksandr Nevskij) – un paese dove proprio oggi una delle maggiori agenzie ufficiali di informazione, la Ria-Novosti, deve smentire con imbarazzo di aver contattato una compagnia di pubbliche relazioni occidentale in vista di una “campagna per rilanciare l’immagine di Josif Stalin”. Ancora, un paese dove nei prossimi giorni la Corte costituzionale potrebbe autorizzare, come chiesto a gran voce dai sondaggi di opinione pubblica e da molti politici, il ritorno della pena di morte, sospesa da tredici anni in ottemperanza ad alcuni trattati eueopei ma mai cancellata dall’ordinamento giuridico.

Nel suo videoblog, il presidente russo afferma che “milioni di persone sono morte come risultato di una campagna di terrore e di false accuse, eppure ancora ci tocca sentire in giro che questi spaventosi sacrifici potevano essere giustificati in nome di certi superiori interessi dello stato. Io sono convinto che né gli obiettivi di sviluppo del paese né i suoi successi o ambizioni possano essere raggiunti attraverso sofferenze e perdite umane (…) Niente è più sacro di una vita umana. E le repressioni non possono essere giustificate in alcun modo”.

Medvedev durante il suo discorso

Medvedev durante il suo discorso

Medvedev aggiunge poi che “la memoria delle nostre tragedie nazionali è altrettanto sacra della memoria delle nostre vittorie” (in Russia le celebrazioni della vittoria contro i tedeschi, il 9 maggio, rappresentano la festa più amata e celebrata da grandi masse di persone), ed è importante che “i giovani conoscano fino in fondo la realtà della storia russa… se vogliono capire le cause dei problemi e delle difficoltà che la Russia sperimenta oggi”.

A Mosca, la commemorazione delle vittime dello stalinismo, messa in piedi dall’organizzazione Memorial, ha raccolto alcune centinaia di persone prevalentemente anziane (secondo la stessa Memorial, ci sono ancora circa 800.000 persone in Russia che sono sopravvissute alle repressioni) in piazza della Lubjanka, davanti alla sede dei servizi segreti (FSB, successore del KGB), là dove la statua del fondatore della polizia segreta Felix Dzerzhinsky è stata abbattuta nel 1991 e sostituita da una semplice pietra proveniente dalle isole Solovetskij, sede del primo Gulag. Un’altra manifestazione di rilievo si è svolta a Vladivostok, che nei decenni del Gulag fu il posto di transito per centinaia di migliaia di prigionieri diretti ai terribili campi della regione della Kolyma.

Leader di opposizione ucciso in Inguscezia

Maksharip Aushev

Maksharip Aushev

Sessanta colpi d’arma da fuoco per uccidere Maksharip Aushev, uno dei nomi più noti tra gli oppositori e gli attivisti per i diritti umani nella repubblica caucasica di Inguscezia, che ha ormai strappato alla Cecenia la sgradevola palma di luogo più pericoloso del Caucaso. Aushev è stato bloccato da sconosciuti e ucciso a raffiche di mitra mentre percorreva, nel territorio della confinante repubblica di Kabardino-Balkaria, l’autostrada del Caucaso (una strada veloce che collega tutte le repubbliche russe della regione). Al suo fianco viaggiava la cugina, sopravvissuta per miracolo con numerose gravi ferite. Aushev era molto attivo nel campo della difesa dei diritti umani – si era coinvolto in questa attività dopo il sequestro, fortunatamente finito bene, di suo figlio e di suo nipote, nel 2007 – ed era socio e amico di un altro leader dell’opposizione, Magomd Yevloyev, assassinato nell’agosto 2008 dai poliziotti che lo avevano arrestato con un pretesto. Insieme, Yevloyev (che ne era il proprietario) e Aushev tenevano in piedi il sito web Ingushetia.org, distintosi per le sue campagne di denuncia della corruzione e delle violenze del regime repubblicano sotto l’allora presidente Murat Zyazikov. Proprio Zyazikov venne indicato l’anno scorso come responsabile primo dell’uccisione di Yevloyev, anche se naturalmente l’inchiesta ufficiale non osò toccarlo, limitandosi a condannare i poliziotti non per omicidio (definito “accidentale”) ma per aver effettuato l’arresto illegalmente. Poi Zyazikov venne licenziato dal presidente Dmitrij Medvedev e sostituito con il generale Yunus-Bek Yevkurov, con il compito preciso di far piazza pulita della corruzione e bloccare le violenze e le intimidazioni condotte dagli apparati di sicurezza repubblicani: il risultato per ora è stato disastroso, nel senso che se moltissimi dirigenti locali sono stati licenziati e sostituiti, le violenze sono d’altro lato aumentate a dismisura, culminando nel giugno di quest’anno con il gravissimo attentato dinamitardo contro lo stesso Yevkurov, sopravvissuto per miracolo e costretto per mesi in ospedale. Negli ultimi tempi Aushev si era un po’ defilato dalla politica, dedicandosi più attivamente alla propria attività di businessman: il che consente ora alla polizia di dire che “forse l’attentato è legato a questioni d’affari”, anche se è abbastanza evidente che il motivo dell’assassinio è politico. Già il mese scorso c’era stato un tentativo di sequestro ai danni di Aushev, fallito per caso. “Dedicarsi ad attività civili, alla difesa dei diritti umani o all’opposizione politica, nelle nostre regioni, è diventato una forma di suicidio”, ha commentato amaramente Tatjana Lokshina, vicedirettore della sezione russa di Human Rights Watch.

Una tigre sempre più a rischio

Una tigre dell'Amur

Una tigre dell'Amur

Pessime notizie sul fronte ambientalista e della conservazione della biodiversità in Russia. Le ultime osservazioni sulla popolazione della tigre dell’Amur, nota anche come tigre siberiana, mostrano un ulteriore drammatico calo nel numero degli esemplari, a causa del bracconaggio e degli estesi lavori per la costruzione di diverse pipelines che attraversano gli habitat tipici di questo magnifico animale. La tigre dell’Amur è il più grande felino vivente, raggiungendo da adulto la lunghezza di tre metri e il peso di trecento chili, con una corporatura più massiccia e potente rispetto alle altre specie di tigre comuni nell’Asia meridionale. Il suo habitat si trova nelle foreste a cavallo tra la Manciuria cinese e l’Estremo Oriente siberiano, in particolare nelle regioni russe di Primorye e di Khabarovsk, che sono in questi anni interessate dalla costruzione di un oleodotto e di un gasdotto, entrambi con diverse diramazioni, destinati a collegare i giacimenti della Siberia ai porti sul Pacifico.

Secondo quanto ha affermato il capo del team di rilevatori della Wildlife Conservation Society (sezione russa), Dale Miquelle, negli ultimi 12 anni la popolazione di tigri nella regione di Primorye è diminuita della metà in soli quattro anni: 56 esemplari adulti oggi, contro 115 nel 2005; e nell’insieme del territorio russo la presenza odierna delle tigri è scesa sotto le 500 unità, cioè il 40 per cento in meno rispetto alla media degli ultimi dodici anni.  Il responsabile dell’Istituto geografico del Pacifico dell’Accademia delle scienze russa, Dmitry Pikunov, ha detto ai giornalisti che la rapida marcia della tigre dell’Amur verso l’estinzione è dovuta da un lato al bracconaggio (si sa di almeno dieci esemplari uccisi dai bracconieri negli ultimi due anni, ma molte di più sono ovviamente le uccisioni che non vengono scoperte) e dall’altro, soprattutto, ai grandiosi lavori in corso che interessano almeno trenta diverse aree abitate dal grande felino nel sola regione della catena montuosa di Sikhote-Alin. L’oleodotto Siberia-Pacifico e il gasdotto Sakhalin-Khabarovsk-Vladivostok (ancora non completati) hanno portato a enormi disboscamenti, costruzione di strade di servizio, traffico di veicoli pesanti che inevitabilmente hanno costretto le tigri a rifugiarsi altrove o a morire di fame.  Secondo quanto riporta l’agenzia RIA-Novosti, la tigre dell’Amur non ha nessuna chance di salvarsi dall’estinzione se i governi di Russia e Cina non adotteranno subito dei programmi congiunti di salvaguardia e conservazione del suo habitat. Dei colloqui sono in effetti iniziati tra Mosca e Pechino nel giugno di quest’anno, con l’obiettivo di creare una riserva naturale transfrontaliera nelle aree più importanti.

In forse il supergrattacielo di San Pietroburgo

Sembrava che la partita ormai fosse chiusa, con la sconfitta degli ambientalisti e della maggioranza dei cittadini di San Pietroburgo, massicciamente ostili alla costruzione di un terrificante grattacielo alto oltre 400 metri in pieno centro storico della capitale baltica. Il progetto dell’onnipotente Gazprom per quella che dovrebbe essere la sua nuova sede aveva facilmente ottenuto il via libera delle autorità cittadine e in particolare della governatrice, Valentina Matveenko (e si sa che difficilmente questa prende una posizione su materie importanti senza consultarsi con Vladimir Putin, pietroburghese doc e vero patron della città). I 2 miliardi di dollari di investimenti previsti fanno gola, chiaro.

Il progetto della torre di Gazprom a San Pietroburgo

Il progetto della torre di Gazprom a San Pietroburgo

Molto più faticoso era stato, in settembre, passare attraverso l’obbligatorio “dibattito pubblico con i cittadini” previsto dalla legge per ogni opera rilevante da costruire. Nonostante trucchi procedurali, cammellaggi di poliziotti e attori travestiti da “cittadini qualunque”, pressioni d’ogni genere, era apparso più che evidente che il grosso dei partecipanti al dibattito, in una sala convegni cittadina gremita all’inverosimile, avversava il progetto con tutta l’anima. Per una volta, per giunta, l’intero dibattito senza tagli era stato ripreso e mandato in onda da una rete televisiva e tutti avevano potuto vedere i balbettii degli amministratori e dei progettisti dello studio britannico RMJM, di fronte al furore e alle contestazioni dei presenti. Ma, come che sia, il dibattito non poteva portare a un voto formale e così il progetto era andato avanti lo stesso verso l’obiettivo della costruzione entro il 2012 della torre principale ed entro il 2016 dell’intero enorme complesso.

Negli ultimi giorni, però, qualche frenata ha incominciato a delinearsi. Prima si sono materializzati vari appelli di uomini di cultura e artisti perché lo sfregio alla città “patrimonio dell’umanità” dell’Unesco venisse evitato. Poi l’Unesco stessa ha fatto circolare una nota non ufficiale in cui si ventilava che il prestigiosissimo status di “patrimonio dell’umanità” (guarda qui la lista dei siti) avrebbe potuto anche esser rimesso in discussione da una modifica violenta del panorama urbano come quella che si sta progettando. In effetti il grattacielo, fatto a forma di pugnale come lo stemma di Gazprom (e come quello del FSB, il servizio segreto russo di cui Putin è stato il capo) dovrebbe essere costruito proprio in riva alla Neva, di fronte allo storico Istituto Smolny e alla splendida chiesa barocca dell’omonimo monastero, schiacciando sotto la propria immensa mole anche i resti della fortezza svedese medievale di Nienshants.

Sabato scorso, una manifestazione di piazza in città ha raccolto un gran numero di pietroburghesi inviperiti; il giorno dopo, inaspettata, è venuta la presa di posizione del ministro federale della cultura, Aleksandr Avdeev, seccamente contraria alla realizzazione del progetto e molto critica verso le autorità cittadine che lo hanno appoggiato. Oggi, tra molti imbarazzi, è venuta la replica della governatrice Matveenko, che precisa all’agenzia RIA Novosti: “Nessuna decisione è stata ancora presa, abbiamo solo detto che, se si farà l’Okhta Business Center (il nome del complesso che comprenderà al suo centro il grattacielo Gazprom, ndr) non sarà necessariamente soggetto ai limiti d’altezza finora previsti per le costruzioni in città”. Già, perché una legge urbanistica locale in vigore da decenni vieta di costruire oggetti più alti di 40 metri. “La decisione insomma deve essere ancora presa – continua Matveenko – e il progetto è in via di definizione, deve essere sottoposto a valutazioni di esperti statali, compresi quelli del servizio geologico federale. D’altra parte, non vedo il motivo di cancellare il progetto adesso”.

Dunque, situazione di stand-by. Secondo i maligni, a frenare nascostamente potrebbe essere stata in definitiva la stessa Gazprom, che ogni giorno pubblica drammatici bollettini sul crollo della produzione e dell’esportazione di gas – dunque sul proprio andamento di cassa, che forse non attraversa il periodo giusto per un esborso di due miliardi di dollari per un edificio. D’altra parte, è anche vero che finora sulla vicenda del contestatissimo grattacielo non ha detto una parola Putin e non l’ha detta nemmeno il presidente Dmitrij Medvedev – pietroburghese anche lui, dopo tutto. Con tutta probabilità, su una storia così delicata e altamente simbolica, i due più potenti uomini del Paese si stanno studiando a vicenda; ma prima o poi saranno loro a decidere.

22.000 tonnellate di scorie radioattive dalla Germania in Russia

Fusti con materiale di scarto radioattivo

Fusti con materiale di scarto radioattivo

L’organizzazione ambientalista tedesca “.ausgestrahlt” rivela sul suo sito alcuni particolari relativi al traffico illegale di scorie radioattive tra Germania e Russia, un traffico ben noto ma le cui effettive dimensioni non erano finora conosciute. Secondo l’organizzazione, fra il 1996 e oggi ben 22mila tonnellate di scorie – essenzialmente esafluoruro di uranio (UF6) – sono state spedite in Siberia dall’impianto di arricchimento di combustibile nucleare di Gronau, in Westfalia. Di questa enorme quantità, molto superiore a quella, già scandalosa, inviata dalla Francia (mediamente 108 tonnellate all’anno), solo il dieci per cento è poi tornato in Germania, dopo un ulteriore arricchimento effettuato presso l’impianto di Seversk (conosciuto un tempo come Tomsk-7), nella Siberia occidentale. Il resto, cioè circa ventimila tonnellate, è rimasto abbandonato in una grande discarica a cielo aperto, immagazzinato in fusti metallici che ora sarebbero in buona parte arrugginiti e a rischio di perdite, secondo quanto appreso da .ausgestrahlt presso fonti ambientaliste russe.  Secondo il portavoce dell’organizzazione, Jochen Stay, i metodi di gestione delle scorie radioattive usati dalle aziende tedesche del complesso nucleare (Rwe e E.on) non sono diversi da quelli usati dalla mafia in Italia (e forse, aggiungiamo, c’è stata anche qualche forma di collaborazione); non ci sarebbe da meravigliarsi se tra breve emergessero nuovi e più grossi scandali anche in merito alla gestione del deposito di scorie “ufficiale” tedesco, quello posto nei pozzi delle miniere di salgemma di Gorleben

Morto a Mosca il "Giapponesino", ex re della mala

L’Ufficio investigativo della Procura federale russa, comunica l’agenzia di stato Itar-Tass, ha confermato oggi ufficialmente la morte, avvenuta in un ospedale moscovita, di Vyacheslav Ivankov, 69 anni, meglio conosciuto come “Yaponchik” (giapponesino) fin dai tempi in cui era una delle figure più note della malavita sovietica. Ivankov era stato ricoverato la sera del 28 luglio scorso, con gravi ferite all’addome provocate dai colpi di fucile di due cecchini che gli avevano sparato mentre usciva da un caffè alla periferia nord della capitale.

Ivankov quando era in carcere negli Usa

Ivankov quando era in carcere negli Usa

La sua è una storia decisamente singolare: si è portato dietro fino all’ultimo, sia in patria sia negli Stati uniti dove ha vissuto per dieci anni, una fama di criminale particolarmente feroce e iper-violento, ma nessuno ha mai potuto legare il suo nome a un singolo omicidio; ha ricevuto pesanti condanne ma ha sempre trovato, tanto in Russia quanto negli Usa, dei misteriosi protettori che si sono incaricati di facilitargli la vita. Ha trascorso comunque quasi vent’anni in varie prigioni di due continenti, ma sempre per reati relativamente minori come rissa, estorsione, falsificazione di documenti, porto d’armi illegale, traffico di stupefacenti.

E sì che, a differenza di altri grandi boss criminali che non si sporcavano mai le mani personalmente, Ivankov era noto per essere sempre personalmente alla guida dei suoi uomini impegnati in attività delittuose. La sua prima condanna, per una rissa in un bar (il giovane Ivankov era una promessa della lotta libera), risale agli anni ’50; tornato libero, iniziò subito a far parte delle bande di teppisti del quartiere, quindi a guidarle in una catena di rapine ed estorsioni (la sua specialità era la falsificazione di documenti della polizia, che poi usava per entrare nelle case e rapinarle), entrando e uscendo dalle galere fino alla condanna a 14 anni inflittagli nel 1982. In carcere divenne ancor più famoso di quanto non fosse da libero: la sua personalità fortissima e i suoi precedenti (circolavano voci che lo volevano responsabile di svariati omicidi, anche se in tribunale non ne fu neppure accusato) ne fecero il più noto dei “vory v zakone” (espressione gergale del mondo carcerario russo che si traduce con “ladri nella legge”) cioè delle “autorità” malavitose.

Fatto assai singolare per il sistema sovietico, Yaponchik fu rimesso in libertà con sei anni di anticipo – si dice per l’intervento a suo favore di un paio di nomi illustri della politica – proprio nei mesi convulsi del ’91 in cui l’Urss si squagliava nel caos. Fatto ancor più curioso, nonostante i suoi palesi e assai poco rassicuranti precedenti e nonostante un esplicito avvertimento da parte del ministero dell’interno russo (che segnalò al Fbi l’intenzione del nostro di mettersi alla testa della “mafia russa”), ottenne senza problemi un visto “business” per gli Stati uniti e vi si trasferì nel 1992 – si dice, per sfuggire a certi suoi “colleghi” russi diventati troppo aggressivi.  Non passò molto prima che effettivamente Ivankov diventasse il capo della famigerata “gang di Brighton Beach” (il quartiere di Brooklyn dove si concentrano gli emigrati russi, ebrei e no) e si dedicasse con passione alle estorsioni e ai ricatti, alla testa di un centinaio di uomini. Già nel 1995, però, venne arrestato dal Fbi durante un tentativo di estorcere alcuni milioni di dollari da una ditta russa di New York; e dopo un processo durato un anno, condannato a 15 anni sulla base di prove tutt’altro che convincenti.

Nel 2004, il ritorno in Russia: la Procura di Mosca lo incrimina per l’omicidio di due cittadini turchi avvenuto in un ristorante della capitale nel 1992 e rimasto insoluto; le autorità americane stranamente accolgono la richiesta di estradizione avanzata dalla magistratura russa e spediscono Yaponchik a Mosca. Qui, nel 2005, il colpo di scena: Ivankov viene processato, riconosciuto innocente e rilasciato in libertà (di nuovo, si mormora, per l’intervento di “qualcuno”). Da allora, pare, il Giapponesino tiene un basso profilo: non fa più parlare di sè e non ci sono più notizie su sue partecipazioni a imprese criminali di qualche genere. Fino a quest’anno, quando tornano a girare le voci di incontri fra Ivankov e altri, più giovani capibanda. Incontri che evidentemente devono aver disturbato qualcuno, che ha deciso fosse giunto il momento di sbarazzarsi di un personaggio ancora troppo ingombrante.

Le donne russe non sognano più un marito occidentale

Sposare un uomo occidentale non è più, come qualche anno fa, uno dei sogni delle donne russe “in età da marito”. Lo rivela un curioso servizio del quotidiano in lingua inglese The Moscow Times, edito a Mosca, che cita un libro appena uscito (“The Seduction of Immigration”) della sociologa Olga Makhovskaya e alcune recenti ricerche sociologiche svolte in Russia. Gli ultimi dati raccolti in materia, pare, affermano che oggi soltanto il 9 per cento delle donne russe non sposate desidera un marito straniero – cioè europeo o americano – mentre soltanto quattro anni fa, nel 2005, la percentuale era ancora del 46 per cento e negli anni novanta questo desiderio era praticamente universale.

Diverse, e tutte ugualmente interessanti e rivelatrici, sono le motivazioni che le donne intervistate portano per spiegare questo drastico cambiamento. Anzitutto un generale calo d’interesse verso il matrimonio in quanto tale come “sogno supremo”: in epoca tardo-sovietica una donna considerava un marito come la sua massima aspirazione nella vita, mentre oggi questo ruolo di punta è passato a una “buona carriera”. Ma ci sono anche motivi precipui per la perdita di interesse degli uomini occidentali: un significativo aumento delle polemiche nazionaliste contro l'”Occidente” durante gli anni della presidenza Putin, in primo luogo, e poi un calo generale della spinta all’emigrazione, dovuta alle migliori condizioni economiche raggiunte dal paese e a una molto miglior conoscenza (attraverso il turismo di massa) della realtà dei paesi occidentali, assai meno favolosa di quel che un tempo poteva apparire: così, dai centomila emigrati all’anno dei primi anni ’90 si è passati ormai a poche migliaia.

E ancora, a influenzare negativamente le aspirazioni delle donne russe, una serie di casi abbastanza clamorosi, negli ultimi anni, di “conflitti internazionali” a proposito dei figli di donne russe separatesi da mariti stranieri, dove i tribunali dei paesi in cui la coppia era andata a vivere – normalmente la donna russa sposa un occidentale anche per andar via dalla Russia, con l’idea di una vita più facile e sicura a Parigi, Amsterdam o New York – si sono rivelati più propensi a togliere i figli alla madre separata e ritornata in Russia, per affidarli al padre che rimaneva sul suolo patrio, piuttosto che all’ipotesi opposta. I media moscoviti hanno dato molto rilievo ad alcune di queste vicende, e probabilmente il pubblico delle aspiranti “mogli di occidentale” ne è rimasto impressionato.

La homepage di un'agenzia che procura "fidanzate russe"

La homepage di un'agenzia che procura "fidanzate russe"

Non ci sono tuttavia dati attendibili sull’andamento concreto del trend dei matrimoni con uomini stranieri. Se pare accertata la diminuzione drastica dell’impressionante flusso di “web-fidanzate” spedite dalla Russia negli Stati uniti o in Europa occidentale con “visti matrimoniali” dopo esser state scelte dai futuri mariti sui cataloghi online di alcune agenzie specializzate (e non si sa quante di queste ragazze siano poi state invece dirottate verso la prostituzione o attività analoghe), risulta invece ancora piuttosto sostenuto il numero di matrimoni “misti” registrato ogni anno a Mosca – ma va precisato che il dato (intorno alle mille unioni al mese) mette insieme senza distinzioni tutti matrimoni che coinvolgano almeno un partner straniero, sia questo il marito, la moglie o siano entrambi i coniugi.