Troppo poche le donne nelle forze armate russe

Il governo si lamenta. Ma le donne che si arruolano sono sempre meno. Poca carriera e poche soddisfazioni. Silenzio su abusi e violenze nelle caserme, un tema tabù
Donne pilota dell'aviazione sovietica durante la seconda guerra mondiale

Donne pilota dell’aviazione sovietica durante la seconda guerra mondiale

L’allarme è stato lanciato dal viceministro della difesa Nikolai Pankov: le donne che servono sotto le armi, come professioniste a contratto (la leva non le riguarda) sono troppo poche. Peggio, stanno calando di numero – segno evidente che l’esperienza di quelle che ci hanno provato non è stata delle migliori. Secondo i dati ufficiali le donne in divisa erano circa 30mila cinque anni fa, cioè poco dopo il definitivo via libera legislativo all’arruolamento nelle forze armate, e sono state soltanto 11mila l’anno scorso. Un drastico calo spiegabile solo in parte con il generale taglio agli organici imposto dalla riforma delle forze armate nazionali, come vorrebbe far credere il ministero: pare invece evidente che ci sia stato un netto e forte riflusso nel desiderio delle donne russe di intraprendere la carriera militare, a dispetto di una tradizione che risale agli anni della Grande Guerra Patriottica (1941-45) e che ha sempre costituito l’orgoglio delle donne nell’ex Unione sovietica, come testimoniano le fotografie di grandi maestri della fotografia di guerra dell’Urss – celebri le immagini scattate da Yevgheny Khaldei a Berlino nel maggio ’45, con le ragazze dell’Armata rossa impegnate a dirigere il traffico.

(Yevgeny Khaldei/CORBIS)

(Yevgeny Khaldei/CORBIS)

Non c’è di che meravigliarsi, del resto. In un paese dalla connotazione fortemente maschilista come la Russia, era difficile pensare che le donne avrebbero avuto vita facile vestendo l’uniforme: i dati del ministero rivelano che la stragrande maggioranza delle donne arruolate a contratto veste i gradi di sottufficiale o ufficiale subalterno, quasi sempre all’interno di unità amministrative e con mansioni legate alla sanità o alle comunicazioni. In altre parole, né carriera verso i gradi superiori né ruoli di comando o comunque all’interno di unità operative. Poche prospettive e poche soddisfazioni, insomma, anche se Pankov ora sostiene che alle donne sono state aperte (quest’anno) le porte delle accademie più prestigiose come quella di Ryazan, dove si formano i gradi superiori delle forze aviotrasportate – insomma i parà.

Non si hanno poi informazioni rispetto al trattamento che le donne in divisa ricevono – o subiscono – all’interno delle proprie unità da parte dei colleghi e dei superiori maschi (un tema che ha provocato una serie di scandali in altri paesi, in primo luogo negli Usa, per la frequenza e la gravità degli abusi sessuali). Difficile credere che in Russia, dove già per gli uomini – nella loro veste di reclute o di allievi – il campionario degli abusi e delle violenze da parte dei “nonni” e dei superiori è terrificante, le cose vadano meglio. Però non è detto: in fondo in questa stessa Russia esistono diversi campi in cui le donne sono andate assumendo, fin dai tempi dell’Urss e probabilmente proprio in virtù di quella che era allora l’ideologia ufficiale, un ruolo molto importante, dalla sanità alla giustizia, dall’amministrazione pubblica alla ricerca scientifica. Persino nel difficile settore del management delle imprese private il numero e il potere delle donne appare in netta crescita negli ultimi anni. E molte donne, va detto, stanno assumendo incarichi di vertice nella polizia.

Yanukovich “malato”, Mosca congela il prestito

Il presidente lascia Kiev per destinazione sconosciuta. Il governo russo smentisce Putin blocca il prestito di 15 miliardi di dollari “finché non si chiarisce come verrà usato” (e da chi)

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Tira una brutta aria per il presidente ucraino – tanto da farlo ammalare e sparire da Kiev per una località imprecisata. Pressione alta, febbre, ecc., così recita il bollettino medico rilasciato stamattina. Può darsi naturalmente che la salute del presidente sia davvero compromessa, ma certo la sua sparizione dalla scena pubblica ucraina cooincide con una serie di problemi tutt’altro che sanitari. Andiamo per ordine. 

1) i manifestanti in piazza – e i loro rappresentanti politici – hanno rifiutato le condizioni poste dal parlamento per il varo dell’amnistia che dovrebbe mettere in libertà tutti gli arrestati delle settimane scorse. Tali condizioni erano essenzialmente due, lo sgombero degli edifici occupati e lo smantellamento del “campo” nel centro di Kiev, entrambe rifiutate seccamente. In sostanza l’opposizione, sia nella sua ala “dialogante” sia in quella più radicale (che nei giorni scorsi si sono affrontate con violenza in più di un’occasione) sembra decisa ormai ad andare fino in fondo e a centrare il bersaglio grosso, cioè un completo cambio di regime, presidente compreso.

2) la Russia mostra di ripensare al generoso prestito concesso all’Ucraina in dicembre, 15 miliardi di dollari più uno sconto di quasi il 50 per cento sul prezzo del gas. Due giorni fa Putin aveva detto che il prestito sarebbe stato onorato anche nel caso di un cambiamento di regime a Kiev, ma ieri il governo russo (cioè il premier Dmitry Medvedev, che ha fatto risentire la propria voce dopo un lungo quasi-silenzio) ha detto che non se ne parla finché non sia chiaro in che modo l’Ucraina userà quei soldi (sottinteso: e chi sarà a usarli). Putin, presente, ha abbozzato affermando che la posizione del governo “è ragionevole”. Il tutto potrebbe esser visto come una pressione su Kiev perché la situazione venga normalizzata con le buone o con le cattive, ma potrebbe anche suonare come un tirare i remi in barca e lasciare Yanukovich al suo destino, poi si vedrà.

3) giungono segnali non molto rassicuranti dalla periferia del paese: nell’ovest iper-nazionalista ormai domina un furore anti-regime che fa temere una secessione, con diversi parlamenti regionali che si sono messi a legiferare per conto proprio e in alcuni casi hanno messo fuori legge il partito di governo e i suoi alleati comunisti; nell’est tradizionalmente pro-russo e sempre considerato una roccaforte personale del presidente ci sono state parecchie manifestazioni di protesta, in alcuni casi anche violente, e la situazione non pare per nulla rassicurante per il regime.

4) l’Europa comunitaria non mostra la sperata capacità di mediazione. Le ripetute e inconcludenti visite a Kiev di esponenti Ue non aprono nessuno spiraglio d’uscita per Yanukovich (che vorrebbe soldi e incoraggiamenti) e in compenso aumentano la convinzione di chi sta in piazza di essere sulla strada buona per vincere. Il tutto, nonostante l’evidente riluttanza della maggior parte della Ue nel sostenere una rivolta che poi l’Unione si ritroverebbe “in casa” se si arrivasse a un cambio di regime. Alcuni governi però, come quello polacco e quello lituano, insistono per “non abbandonare il popolo ucraino” e chiedono una linea più decisa contro il regime di Kiev.

5) gli Stati uniti in compenso hanno imboccato la via delle sanzioni contro il regime e alcuni dei suoi esponenti (quelli ritenuti più coinvolti nella repressione delle settimane scorse), con un pacchetto di misure messo a punto da alcuni esponenti del Congresso. Finora la posizione ufficiale americana era stata abbastanza moderata, con una telefonata del vicepresidente Joe Biden a Yanukovich nei giorni scorsi per esortarlo a non usare le maniere forti contro l’opposizione; ma nel Congresso prevale invece una visione più “militante” e interventista, al punto che già due senatori – il repubblicano McCain e il democratico Murphy – si sono recati a Kiev e hanno parlato direttamente alla folla dei manifestanti anti-regime.

Kiev verso il disastro

kievButta male a Kiev. Tre, forse cinque morti pesano terribilmente sui protagonisti dell’interminabile braccio di ferro iniziato ormai due mesi fa e giunto probabilmente a una stretta finale. Ieri tre ore di trattativa fra i leader dell’opposizione e il presidente Yanukovich non hanno prodotto alcun risultato, e ci si aspetta nella notte o per le prime ore di domani un tentativo da parte delle autorità di risolvere con la forza il conflitto che da domenica si sta svolgendo nelle vie del centro della capitale con una violenza che la città non vedeva dagli anni della seconda guerra mondiale. Il leader del partito Udar, Vitaly Klitschko, ha chiesto alla folla riunita nella piazza dell’Indipendenza di non andar via e di resistere “con tutti i mezzi” al presumibile assalto che le forze di sicurezza porteranno nelle prossime ore per sgomberare la piazza e le vie adiacenti. Su twitter sono circolate foto di mezzi corazzati in avvicinamento a Kiev (anche se potrebbero essere semplici spostamenti tecnici senza alcun legame con lo scontro di piazza); lo stesso Klitschko ha dato al governo una sorta di ultimatum per ritirare le forze della repressione: se entro giovedì mattina non ci saranno cambiamenti “passeremo all’offensiva”.

Intanto, comunque, c’è il tremendo conto delle vittime. Due persone sono morte colpite da proiettili, una terza è precipitata dall’alto dello stadio adiacente i luoghi degli scontri; altri due morti sono segnalati dall’agenzia France Presse, anche se per il momento non ci sono conferme da altre fonti. Non è nemmeno chiaro come siano stati uccisi i due morti “sicuri” (di cui sono stati anche dati i nomi): c’è chi parla di proiettili normali e chi di quelli di gomma; la polizia sostiene di non avere in dotazione in piazza armi da fuoco, ma molte foto mostrano agenti che sparano con varie armi.

Al moltiplicarsi delle testimonianze fotografiche si accompagna però una scarsità di informazioni su chi effettivamente stia conducendo gli scontri con la polizia: non sembra che i leader dell’opposizione, compreso Klitschko, siano in grado di controllare gran che, e si vedono spesso in azione gruppi di giovani con indosso tenute paramilitari e i simboli di alcune formazioni di estrema destra. Circola anche voce di continue infiltrazioni di provocatori della polizia nelle file dell’opposizione, con il chiaro intento di far degenerare la situazione e giustificare un massiccio e violento intervento delle forze di sicurezza.

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Un’amnistia in Russia? Incredibile ma…

La mensa nella colonia penale di Arkhangelsk

La mensa nella colonia penale di Arkhangelsk

Lo scetticismo è ovviamente più che lecito, data la fama (meritata) di regime manettaro che aleggia intorno a quello di Vladimir Putin: eppure questa volta sembra proprio che con l’accordo del presidente russo si stia preparando una misura di clemenza su larga scala, un’amnistia che coinvolgerebbe moltissimi detenuti nelle numerose carceri e nei campi di lavoro del paese. L’occasione sarebbe costituita dal ventesimo anniversario della costituzione – in arrivo tra pochissimo, il 12 dicembre – varata in circostanze non proprio esaltanti da Boris Eltsin nel 1993, quando sostituì la scomoda costituzione sovietica (che risaliva al 1978) poche settimane dopo aver sciolto a cannonate il parlamento, che la difendeva e che pagò con centinaia di morti la sua opposizione.

Ma ora qui non interessano tanto le circostanze e la qualità della costituzione eltsiniana, quanto la dichiarata volontà di usare l’anniversario per alleggerire l’insopportabile quantità di detenuti che il sistema carcerario russo tiene reclusi. Secondo quanto afferma il capo del Consiglio per i Diritti umani del Cremlino, Mikhail Fedotov, che è il principale promotore dell’amnistia, del provvedimento potrebbero beneficiare fra cinquanta e centomila persone attualmente detenute. Certo, è solo una piccola quota rispetto al totale (stimato) che è di quasi novecentomila carcerati, il che fa della Russia il terzo paese al mondo (dopo Stati uniti e Cina) per numero di reclusi; ma comunque è un passo importante.

Secondo Fedotov, la proposta di amnistia è stata approvata da Putin in persona, e infatti il portavoce del presidente, Dmitry Peskov, ha confermato che sarà il Cremlino a presentarla in parlamento nei prossimi giorni: il che, salvo sorprese o colpi di scena, dovrebbe garantire l’approvazione quasi automatica.

Incerto è invece, al momento, il criterio con cui l’amnistia verrebbe applicata – a quali tipi di reato, a quali entità di pena e così via, il che spiega la vaghezza sul numero degli effettivi beneficiari. E sulla loro identità: Peskov si è rifiutato di dire se nella misura di clemenza potrebbe rientrare per esempio Mikhail Khodorkovskij, l’ex oligarca diventato quasi un simbolo per l’opposizione liberale, cui spetterebbero ancora tre anni e rotti di carcere, ma che in base a una sentenza recente dovrebbe poter invece uscire nel 2014. Quasi certo invece che l’amnistia riguarderebbe le due ragazze del gruppo Pussy Riot ancora detenute, così come taglierebbe corto con alcuni processi in corso tra cui quello ai trenta attivisti di Greenpeace arrestati (e ora liberi su cauzione) dopo l'”assalto” a una piattaforma petrolifera nell’oceano Artico.

Il grosso dei beneficiari dell’amnistia, comunque, sarebbe costituito da persone in carcere (o in procinto di entrarci) per violazione delle severe leggi sull’immigrazione, alle quali verrebbe offerta quindi la possibilità di richiedere legalmente un permesso di soggiorno per lavoro, invece di essere espulse come normalmente accade a coloro che vengono trovati senza documenti.

Si dimette Irina Antonova, da 52 anni direttrice del museo Pushkin

Irina Antonova nel suo museo Pushkin

Irina Antonova nel suo museo Pushkin

Il nome di Irina Antonova probabilmente dice poco anche a chi si interessa di arte: eppure si tratta di un personaggio assolutamente straordinario, avendo ricoperto la carica di direttore del museo Pushkin di Mosca ininterrottamente per 52 anni, dal 1961 a qualche giorno fa, quando, avendo compiuto ormai la ragguardevole età di 91 anni, ha pensato di dimettersi. Straordinario è il fatto che Antonova sia passata indenne attraverso fasi travagliatissime della storia politica moscovita: nominata al suo importantissimo incarico (in Russia, e prima nell’Urss, il museo Pushkin è uno dei più rilevanti, il secondo in assoluto dietro l’Ermitage di San Pietroburgo) durante il “disgelo” khruscioviano, ha poi mantenuto la carica durante la lunga stagnazione brezneviana, durante la tumultuosa perestrojka gorbacioviana, durante la catastrofe successiva quando praticamente tutti gli incarichi pubblici di qualche rilievo vennero terremotati dalla fine dell’Urss e del partito unico; e infine durante il periodo putiniano, resistendo agli appetiti sfrenati dei boiari alla corte di zar Putin. E non si pensi che la sua resistenza sia stata facilitata da un compito istituzionale facile: al contrario, la gestione del patrimonio artistico è stata ripetutamente al centro di tempeste politiche di prima grandezza, sia per il valore ideologico dell’arte contemporanea durante gli anni sovietici (basti pensare che Antonova ottenne solo nel 1973 il permesso di esporre la maggior parte del fantastico patrimonio di impressionisti detenuto dal museo, quando fino ad allora tali opere erano ritenute frutto di “decadentismo borghese” e simili), sia per le tormentate vicende internazionali del “bottino di guerra”, lo spettacolare patrimonio di opere sequestrate nei musei e nelle residenze private dei tedeschi nel 1945-46, finite per la più gran parte proprio nei depositi blindati del museo Pushkin. Intorno a questo patrimonio e alla sua restituzione o meno alla Germania si accese nei primi anni Novanta un durissimo dibattito polemico, nel quale Irina Antonova ebbe un ruolo di primissimo piano, contrastando (con successo) le ipotesi di restituire le opere in cambio di favori politici da Berlino. Al posto di Antonova, che nel corso degli anni ha anche accumulato una buona dose di onorificenze e medaglie e che resterà comunque “presidente ad honorem” del museo, il governo ha nominato la nota gallerista e storica dell’arte Marina Loshak, già direttrice del grande centro espositivo del Maneggio, davanti alle mura del Kremlino.

Un “pacco” miliardario nelle carceri russe

Truffe e varie operazioni fraudolente per oltre 10 miliardi di rubli (250 milioni di euro) sono state scoperte da un’inchiesta interna al Servizio penitenziario federale russo (FCIN in sigla). La notizia non rivela niente che ai cittadini russi non sia noto da sempre – la corruzione all’interno del mastodontico sistema penitenziario è una costante fin dai tempi di Pietro il Grande, e ovviamente anche da prima, salvo essere chiamata con altri nomi – ma fornisce alcuni interessanti flash sui nuovi modi in cui il sistema creato per punire i reati finisce per incoraggiarne altri ai massimi livelli.

Il braccialetto elettronico (da caviglia) della truffa

Il braccialetto elettronico (da caviglia) della truffa

La truffa più assurda, riportata dai media locali con gran rilievo, è quella che ha visto il FCIN ordinare e acquistare a caro prezzo – per una somma totale di oltre un miliardo di rubli, circa 25 milioni di euro – una grossa partita di braccialetti elettronici per la sorveglianza dei detenuti agli arresti domiciliari. Gli apparecchi, dall’aspetto simile a quello di semplici orologini digitali da polso, sono stati ordinati personalmente dall’ex capo del servizio penitenziario, Aleksandr Reimer, a una ditta praticamente sconosciuta, in quantità molto superiore alle necessità (la detenzione ai domiciliari non è una misura molto usata in Russia) e saltando ogni verifica sulla qualità del prodotto fornito. Il risultato è stato un “pacco” da commedia alla napoletana, visto che le decine di migliaia di braccialetti arrivati a destinazione si sono rivelati degli aggeggi del tutto inutili perché privi dell’elemento più importante (e pregiato), cioè il collegamento con uno dei sistemi satellitari di geolocalizzazione, il classico GPS o il più patriottico (tutto made in Russia) Glonass. In pratica erano davvero degli orologini di plastica da pochi centesimi.

A questa truffa vanno poi sommate decine e decine di altri casi più “classici”, fondamentalmente basati su estorsioni e bustarelle imposte dai responsabili del servizio penitenziario ai fornitori, su materiali non rispondenti ai capitolati d’acquisto e via dicendo; ed è chiaro che la somma totale di 10 miliardi di rubli, essendo frutto di un’inchiesta interna, è molto probabilmente assai inferiore alla realtà.

Come che sia, sembrerebbe che davvero il presidente Vladimir Putin stia cercando di ripulire almeno in parte le spaventose incrostazioni di corruzione e malaffare che appesantiscono in modo micidiale tutte le strutture amministrative. Il presidente ha indicato questa come una delle massime priorità del suo terzo mandato, ed effettivamente è ormai da diversi mesi che le notizie relative a inchieste e repulisti nei ministeri e nei servizi federali stanno occupando le prime pagine. Subito prima delle truffe nel servizio penitenziario erano state diffuse le notizie sull’ammontare dei danni provocati dalle malversazioni all’interno di uno dei sancta sanctorum del regime russo, il servizio di amministrazione e approvvigionamento della difesa (Oboronservis), in cui la sola vendita illegale di proprietà immobiliari del dipartimento ha portato oltre 13 miliardi di rubli di danni per l’erario – ed enormi guadagni illeciti nelle tasche di una serie di funzionari in divisa. Per lo scandalo Oboronservis sono finora finiti in carcere parecchi ufficiali d’alto grado, a partire dall’ex ministro della difesa Anatoly Serdyukov.

Resta tuttavia da capire se la pulizia che viene ora sbandierata su tutti i media sia effettivamente tale o se non sia condotta in modo da colpire soltanto alcuni casi indifendibili lasciando sostanzialmente inalterato il sistema che consente alla corruzione di proliferare. La Russia, ricordiamo, è agli ultimi posti in assoluto nella graduatoria mondiale sulla trasparenza e la corruzione nelle strutture amministrative pubbliche. In ogni caso, va comunque notato, il rilievo e lo spazio che queste vicende hanno sui media non potrà non avere effetti sull’opinione pubblica e sulla capacità stessa dei media di affrontare più in generale il tema della corruzione.

(pubblicato su Globalist.it il 29 marzo 2013)

Boris Berezovsky, il giallo del principe oscuro

Berezovsky a Londra

Berezovsky a Londra

Gli esperti britannici hanno subito escluso che in questo oscuro affare ci sia di mezzo qualcosa di eccezionale – in sostanza che Boris Abramovic Berezovsky sia stato ucciso da misteriose armi nucleari, chimiche o batteriologiche. La sua casa, dove è morto ieri, è stata passata al setaccio e definita “pulita” dalla squadra dei tecnici inviati a controllarla. E questo ci consola, perché allontana il pensiero che mostruose e micidiali sostanze siano in giro intorno a noi, nelle mani di oscuri killer venuti dal buio. Ma la rassicurazione degli esperti non toglie comunque niente al mistero che circonda la morte dell’ex magnate russo nella sua casa fuori Londra. Morte per cause naturali, suicidio o omicidio?

Si trattasse di un signor X qualsiasi, non ci sarebbero dubbi. Un uomo di 67 anni, malato e già passato negli ultimi mesi attraverso ripetuti attacchi cardiaci, che muore da solo nel bagno di casa sua e che non sembra presentare sul corpo lesioni traumatiche di nessun tipo: chi andrebbe a pensare a cose strane? Un infarto o un ictus, via, e riposi in pace.

Ma Boris Berezovsky non era un signor X qualsiasi: era un personaggio importante, con un passato estremamente tumultuoso, passato attraverso una quantità di ruoli e di prove che pochi al mondo possono dire di aver vissuto, da ricercatore dell’Accademia delle scienze a mercante disinvolto, da boss criminale a uomo più influente della Russia; da avventuriero a padrone dei destini di un enorme Paese, da “facitore di re” e burattinaio di presidenti a esule perseguitato, coinvolto in ogni trama e ogni intrigo di una sceneggiatura – quella della Russia post-sovietica – che di trame e intrighi in questi ultimi vent’anni ne ha offerti a volontà. Un personaggio caduto negli ultimi tempi molto in basso: in grave difficoltà finanziaria per una serie di scommesse troppo azzardate lanciate e perdute, in grave difficoltà politica per essersi troppo esposto e troppo fidato della protezione e benevolenza del Regno Unito, dove si era rifugiato negli ultimi anni per proseguire la sua sfida a Vladimir Putin.

L’assurda causa da lui intentata contro il super-oligarca Roman Abramovic, malamente perduta l’estate scorsa davanti a un tribunale britannico e trasformatasi per lui in un disastro finanziario con la condanna a pagare oltre 35 milioni di sterline, è stata forse la sua sconfitta più grave e invalidante: più delle condanne penali inflittegli dai tribunali russi in contumacia, più degli attentati degli anni ’90 da cui è uscito vivo per miracolo. Dicono che ormai avesse perso praticamente tutto il suo patrimonio e dovesse chiedere piccoli prestiti agli amici: qualcosa che per un uomo con il suo passato doveva essere il massimo dell’umiliazione. Se è vero che negli ultimi giorni aveva confidato ad alcuni amici e anche a un giornalista venuto a intervistarlo che la sua vita “non aveva più senso”, potrebbe essere credibile l’ipotesi di un suicidio.

Eppure anche questo non basta a chiudere la vicenda con tranquillità. Perché Boris Berezovsky non era di quegli uomini che a un certo punto mollano – o quantomeno non dava l’idea di esserlo. Si era già trovato varie volte nei guai, ogni volta resuscitando in un modo o nell’altro. E il suo coinvolgimento (a vario titolo, volta a volta come vittima, testimone, o presunto colpevole) in una serie di delitti e di fatti sanguinosi – il più famoso ora è il misterioso assassinio a Londra nel 2006 del suo amico ex agente segreto Aleksandr Litvinenko, avvelenato con del polonio radioattivo nel tè, ma di vicende oscure nella vita dell’ex tycoon russo ce ne sono a dozzine – autorizza anche a pensare che la sua morte possa esser stata cercata e ottenuta in modo deliberato da potenti nemici.

Putin, da lui definito il suo massimo nemico e persecutore, con i potenti e sempre tenebrosi servizi segreti russi sono ovviamente i primi cui vien da pensare se si parla di omicidio, ma è un riflesso condizionato dai media e del tutto privo di riscontri: in realtà nell’elenco dei nemici ci sono anche i rivali in affari, c’è la mafia georgiana con cui ha avuto a che fare all’inizio della sua carriera, e c’è quella cecena: non dimentichiamo che il nostro Berezovsky ha sempre avuto un ruolo importante di mediatore e manovratore nei rapporti tra la guerriglia cecena e il mondo esterno, era molto amico di un leader ceceno degli anni ’90 riparato a Londra, Akhmed Zakayev, e feroce nemico del boss ceceno di oggi, Ramzan Kadyrov. Né va dimenticato che Berezovsky, ebreo russo con la doppia cittadinanza russa e israeliana, è stato anche una importante pedina della diplomazia segreta dei governi di Israele e potrebbe quindi anche essere finito nel mirino di altre organizzazioni e altre mafie. Ormai lo sanno tutti che dietro le facciate rispettabili dei palazzi di Chelsea e delle magioni della Thames Valley si muovo moltissimi interessi oscuri e moltissime organizzazioni che di limpido hanno ben poco.

Resta dunque almeno per adesso un necessario mistero sulla fine improvvisa di Berezovsky. In attesa che un’autopsia faccia chiarezza (ma il dubbio resterà sempre), questo stesso mistero varrà comunque da tributo a un personaggio straordinario, uno di quei “principi oscuri” che nel bene e nel male segnano la storia di un Paese e, pur sconfitti, difficilmente finiscono nel dimenticatoio.

(pubblicato su Globalist il 24 marzo 2013)

La “prima” di Xi Jinping è a casa di Putin

Putin e Xi Jinping al Cremlino

Putin e Xi Jinping al Cremlino

I simboli contano, soprattutto quando vengono usati dai leader mondiali: ed è certamente un gesto simbolico importante per il nuovo presidente cinese Xi Jinping aver scelto Mosca per iniziare il suo primo viaggio all’estero da quando ricopre il suo cruciale incarico, formalizzato il 14 marzo. La visita in Russia, iniziata oggi, durerà tre giorni e comprenderà la firma di una serie di accordi economici e diverse discussioni con il collega russo Vladimir Putin sugli argomenti chiave dell’attuale situazione internazionale, dalla crisi siriana alla Nord Corea, dall’Iran al disarmo. E naturalmente i due leader parleranno di energia, la questione-principe che li lega (e li divide, al tempo stesso) essendo la Russia uno dei massimi produttori di energia del pianeta e la Cina il massimo consumatore.

Via da Mosca, Xi Jinping si recherà in Africa visitando Tanzania, Congo e Sudafrica, dove parteciperà al summit dei cinque Paesi “BRICS” (Brasile, Russia, India, Cina e appunto Sudafrica), cioè il club dei più importanti Paesi ex “emergenti” e ormai ampiamente “emersi”, ricchi e potenti non meno dei Paesi euroatlantici che amavano considerarsi “primo mondo”. Il viaggio africano di Xi riveste a sua volta un forte valore simbolico, al di là della partecipazione al summit dei BRICS, per l’enorme impegno che la Cina sta mettendo nella sua penetrazione economica e politica nel continente africano, dove ormai è diventata il primo partner commerciale scavalcando sia le ex potenze coloniali (Francia e Gran Bretagna) sia gli Stati Uniti, al punto che i commentatori malevoli parlano ormai dell’Africa come di una “colonia cinese” – anche se in realtà gli investimenti di Pechino nel continente hanno portato anche sviluppo e crescita infrastrutturale.

Ma per restare a Mosca, va notato come sia da parte cinese che da parte russa venga sottolineata l’ottima armonia di posizioni dei due paesi, cementata dal comune desiderio di contenere – se non di contrastare apertamente – le spinte egemoniche statunitensi, visibili tanto nella regione dell’Asia centrale quanto nella regione costiera del Pacifico, dove si sposano con le rinnovate spinte nazionaliste del Giappone. Fin dall’inizio del suo secondo mandato, il presidente statunitense Barack Obama ha indicato proprio l’area Asia-Pacifico come teatro principale di attenzione per gli Stati Uniti, su tutti i terreni – politico, economico e militare. Non a caso quindi Putin ha parlato di “un ordine mondiale più giusto” derivante dalla cooperazione fra Mosca e Pechino, mentre Xi ha voluto rimarcare “l’estrema importanza che la Cina attribuisce alle sue relazioni con la Russia (.) un nostro partner strategico con cui parliamo un linguaggio comune”.

E’ una vicinanza che pesa oggi soprattutto sul piano politico, visto che sulla scena internazionale i due Paesi concordano quasi su tutto e si muovono in sintonia; ma anche sul piano economico e commerciale la crescita è visibile, Nel 2012 l’interscambio commerciale ha sfiorato i 90 miliardi di dollari, e ancora non sono arrivati i contratti-monstre che gli esperti delle due parti stanno discutendo da tempo, riguardanti il gas siberiano.

(pubblicato su Globalist il 22 marzo 2013)

A Mosca il governo si raddoppia lo stipendio

Una riunione di Putin con i suoi ministri e collaboratori

Una riunione di Putin con i suoi ministri e collaboratori

Raddoppiati gli stipendi dei funzionari del governo federale e dell’amministrazione presidenziale in Russia. Da un giorno all’altro. Anche il salario medio della generalità dei cittadini russi raddoppierà – annuncia il governo – ma in tempi un po’ più lunghi, cioè nell’arco dei prossimi 17 anni: da qui al 2030. Nel frattempo, la forbice della diseguaglianza tra persone comuni e funzionari dello Stato andrà inevitabilmente aumentando ancora. Per avere un’idea dello stato attuale: lo stipendio medio in Russia è di circa 800 euro al mese (secondo i dati forniti dal governo, piuttosto ottimistici); quello dei funzionari governativi di primo livello, dopo gli aumenti, è di circa 8.000 euro.
In tempi di crisi, che colpisce pesantemente anche nel grande paese eurasiatico, sia pur con minore virulenza che nell’Europa occidentale, la notizia degli aumenti dati ai funzionari è stata tenuta per un po’ al riparo dai media: ma alla fine è stato inevitabile ammetterla, dopo che l’edizione russa della rivista Forbes l’aveva rivelata. Gli aumenti sono stati decisi dal presidente Vladimir Putin già in settembre, e inizialmente riguardavano soltanto i funzionari della sua amministrazione (una sorta di governo parallelo, con poteri in parte sovrapposti a quelli del governo federale), il cui stipendio medio veniva sostanzialmente raddoppiato “per equipararlo alle paghe reali nel settore privato” (presumibilmente quelle dei bancari e quelle dei grandi gruppi finanziari e industriali).
La notizia dell’aumento, pur tenuta lontana dal grande pubblico, aveva immediatamente provocato il risentimento e le lamentele dei funzionari del governo federale, offesi per essere considerati “di serie B” rispetto allo staff dell’amministrazione del Kremlino; pare ci siano state proteste anche piuttosto rumorose nei corridoi dei palazzi governativi: fatto sta che in novembre Putin ha emesso un nuovo decreto, aumentando più o meno nella stessa misura anche gli stipendi dello staff del governo federale, con effetto a partire dal 1 gennaio. Il mese scorso la notizia è apparsa su Forbes-Russia e ieri, finalmente, il portavoce di Putin, Dmitrij Peskov, si è deciso a confermare tutto, giustificando gli aumenti con una serie di motivazioni molto varie.
In primo luogo viene citato il fatto che gli stipendi delle due amministrazioni erano troppo bassi se paragonati non solo con il settore privato ma anche con altri reparti importanti dell’apparato di Stato, come lo Stato maggiore delle forze armate o l’amministrazione del FSB, i servizi di sicurezza; in secondo luogo si cita la necessità di razionalizzare il sistema retributivo dei funzionari, che finora si è articolato non solo sugli stipendi ma su una serie di bonus importanti (una tradizione ereditata direttamente dal periodo sovietico) che riguardano l’accesso alla sanità, ai luoghi di vacanza, ai trasporti e persino alla spesa quotidiana. Con il nuovo sistema – ha detto Peskov senza elaborare – molti di questi bonus sono stati monetizzati.
Infine, l’aumento viene presentato come un antidoto cruciale alla corruzione dei funzionari, sulla scorta di quella che sembra essere una discreta campagna lanciata da Putin per combattere il fenomeno. Nei mesi scorsi aumenti retributivi molto forti avevano interessato – sempre con questa motivazione: lotta alla corruzione – anche i funzionari dei servizi segreti e quelli del servizio investigativo della Procura (in pratica, la nostra polizia giudiziaria) e del parallelo servizio investigativo dell’Ispettorato delle finanze (la polizia tributaria). La Russia, ricordiamo, è considerata (e oggettivamente è) uno dei Paesi più corrotti del mondo – l’organizzazione internazionale Transparency International l’ha collocata al 133mo posto su 174 paesi del mondo quanto a “pulizia” delle sue pratiche amministrative – e il governo stesso ha stimato l’anno scorso che il peso delle bustarelle sulla spesa sostenuta per i contratti statali sia superiore a mille miliardi di rubli, circa 25 miliardi di euro. Un peso evidentemente insopportabile anche per uno Stato pieno di soldi come quello russo.

(pubblicato su Globalist il 13 marzo 2013)

Ingloriosa fine per un ex-presidente

Viktor Yushenko e Yulija Timoshenko quando uno era presidente e l'altra primo ministro dell'Ucraina

Viktor Yushenko e Yulija Timoshenko quando uno era presidente e l’altra primo ministro dell’Ucraina

E’ durata solo poche ore l’espulsione dell’ex presidente ucraino Viktor Yushenko dal partito che egli stesso aveva fondato, “Ucraina Nostra”: ma è bastata per dare una misura ulteriore, se ce ne fosse stato bisogno, di quanto il prestigio di questo personaggio sia sceso in basso negli ultimi tempi. Yushenko è stato espulso stamattina dal partito con una decisione del Comitato cittadino di Kiev, ed è stato riammesso nel pomeriggio per decisione del Consiglio politico nazionale, istanza ovviamente superiore. L’espulsione era legata formalmente a un episodio dell’anno scorso (la sostituzione di alcuni rappresentanti di lista durante le elezioni politiche) che hanno portato nei confronti dell’ex presidente a un’accusa di “tradimento degli ideali del partito”; in realtà sulla vicenda hanno pesato soprattutto le continue polemiche fra Yushenko e il resto dell’opposizione al regime, polemiche che hanno molto facilitato le cose per l’attuale presidente Viktor Yanukovich e il suo premier Mykola Azarov.

Yushenko, ricordiamo, venne eletto presidente al culmine della cosiddetta “rivoluzione arancione” del 2004-2005, dopo l’annullamento per frode elettorale della vittoria che era stata attribuita proprio a Yanukovich, allora appoggiato dal presidente uscente Leonid Kuchma e sostenuto da Mosca. Yushenko era allora il beniamino dei governi occidentali (ma in precedenza era stato primo ministro sotto la presidenza Kuchma), insieme alla “pasionaria” Yulija Timoshenko, e cercò con tutte le sue forze di imporre al Paese una politica fortemente nazionalista, addirittura rivalutando le formazioni fasciste che combatterono contro l’Armata Rossa a fianco della Wehrmacht, e di portare l’Ucraina nella UE e nella NATO, senza però riuscire nel suo intento. Dopo aver rotto anche con l’alleata Timoshenko, Yushenko si ritrovò poi completamente isolato e con una popolarità azzerata: nelle elezioni presidenziali del 2010 venne stracciato dai rivali e nelle politiche dell’anno scorso il suo partito raccolse solo poco più dell’1 per cento dei voti.

In compenso la sua testimonianza è stata abbastanza decisiva per far condannare la Timoshenko a sette anni di carcere per abuso di potere, in relazione al contratto di fornitura del gas russo all’Ucraina firmato nel 2009 dalla stessa Timoshenko e definito da Yushenko “un tradimento degli interessi nazionali ucraini”. Adesso la sua rivale langue in carcere, pare anche in cattive condizioni di salute, fra le proteste di alcuni leader occidentali e l’indifferenza del resto del mondo. Lui, Yushenko, pare sia intenzionato a lasciare comunque “Ucraina nostra” e a fondare un nuovo partito.