Moldova, tutto da rifare

Per la terza volta in meno di due anni la Moldova, ex repubblica sovietica nonché titolare del poco ambito titolo di Paese più povero d’Europa, è andata alle urne per eleggere i 101 deputati del Parlamento (camera unica). E per la terza volta, il risultato non è stato tale da consentire un’uscita chiara dall’impasse politica in cui il Paese si trova. A vincere nettamente, con il 41 per cento dei voti e 44 seggi su 101, è stato il Partito comunista; a seguire il Partito liberaldemocratico con il 28,7 % e 31 seggi, il Partito democratico con il 12,9% e 15 seggi e infine il Partito liberale con il 9,3% e 7 seggi. Come le due volte precedenti, quindi, né i comunisti (che hanno perso qualcosa) né un’alleanza degli altri tre partiti (ne hanno perso uno per strada, rimasto sotto la soglia del 4%) possono disporre dei 61 seggi (i tre quinti del totale) necessari per eleggere il presidente della repubblica – che la costituzione, inutilmente sottoposta a un referendum per modificarla, vuole eletto dal parlamento.

Il leader del Pc moldavo, Voronin

Si ripropone quindi ancora una volta il dilemma per i tre partiti “borghesi”: adeguarsi a un’alleanza con i comunisti oppure cercar di governare da soli, ma senza poter eleggere la massima carica dello Stato e quindi restando in condizioni di sostanziale impotenza (in realtà non è che il Pcm sia molto diverso dagli altri, ma è pur sempre l’erede diretto del vecchio Pcus sovietico, branca moldava). Il leader del Pc, cioè l’ex presidente della repubblica Vladimir Voronin, immediatamente dopo aver visto i risultati ha lanciato un’offerta al Partito democratico per costituire un’alleanza di governo: alleanza che però non riuscirebbe in ogni caso a mettere insieme i numeri per eleggere anche il presidente (mancherebbero due voti). Si preannuncia quindi, come già è avvenuto in passato peraltro senza esito, una complessa “campagna acquisti” in parlamento per recuperare qualche voto in più in cambio di… qualcosa.

A dividere i deputati in modo trasversale ai partiti, oltre a tutto, c’è anche la mai sopita “questione nazionale”, cioè la scelta se avvicinarsi di più o di meno al traguardo di un’unione con la vicina Romania; e, sul versante opposto, la questione della riunificazione con i “fratelli separati” della Transdnistria – entrambe questioni che coinvolgono pesantemente la collocazione internazionale del Paese tra Unione Europea e Russia e che dunque provocano attenzioni non sempre disinteressate sia da parte di Bruxelles che da parte di Mosca. Nell’attesa, la Moldova sembra destinata a restare confinata nella condizione di emarginazione e sottosviluppo che la attanaglia da troppo tempo.

Vladivostok, i nordcoreani richiamati in patria

La frontiera fra Russia e Nord Corea sul fiume Tumen

La maggior parte dei migranti nordcoreani che lavorano più o meno legalmente a Vladivostok e nella circostante regione di Primorye (che ha un breve confine terrestre con la Corea del Nord) sono tornati di corsa in patria nelle ultime ore, chiaramente in seguito all’acutizzarsi della tensione fra il loro paese e la Corea del Sud, scrive il quotidiano russo Moskovskie Komsomolets. I cantieri edili e gli altri luoghi di lavoro dove la manodopera nordcoreana è presente abbastanza numerosa (ed è la più a buon mercato che si possa trovare, in una regione dove già le paghe “normali” sono piuttosto basse) sono da stamattina svuotati in misura consistente, in alcuni casi addirittura deserti.

La cosa che sconcerta è che fino a ieri non c’erano segni di comportamento anormale: i nordcoreani, che normalmente lavorano in squadre molto disciplinate, dirette da altri coreani e con pochissimi rapporti con i cittadini russi, per tutta la giornata di giovedì hanno continuato a lavorare normalmente e con tranquillità. Solo, scrive l’agenzia russa VladNews,  si è notata un’insolita presenza e attività, fra i connazionali, dei numerosi agenti dei “servizi” di Pyongyang, che controllano i loro emigranti in Russia. Ieri invece, di colpo si è registrata l’assenza in massa, mentre alla sorvegliatissima frontiera con la Corea del Nord si formavano file di persone in attesa di rientrare in patria: il che fa pensare che ci sia stato un ordine preciso dalle autorità del Nord, un ordine che secondo alcune voci sarebbe una vera e propria mobilitazione generale in previsione di un’eventuale guerra contro il Sud.

OMON contro Novoe Vremja

Un reparto di OMON (polizia speciale)

Un tribunale moscovita ha ordinato al giornale New Times-Novoe Vremja (tempi nuovi) di ritrattare completamente un articolo pubblicato tempo fa, che accusava i reparti speciali di polizia OMON di corruzione e abusi. L’articolo era largamente basato su una lettera aperta inviata da un gruppo di agenti di un’unità OMON  al presidente Dmitrij Medvedev, nella quale erano riportati con ampiezza di dettagli numerosi episodi di corruzione, ricatto e abusi, esercitati sia all’interno degli stessi reparti sia nei confronti di civili, soprattutto stranieri (tra l’altro si citava il caso di numerosi migranti asiatici fermati per strada e costretti a lavorare gratuitamente nelle caserme della polizia). Dopo la pubblicazione dell’articolo con la lettera in questione, la redazione di New Times è stata ripetutamente visitata e perquisita dalla polizia e i giornalisti pesantemente interrogati; succesivamente è stata aperta un’inchiesta che ha portato al processo e alla condanna attuale. La direzione del giornale ha presentato ricorso in appello.

La vicenda di fatto rappresenta un importante banco di prova, mettendo direttamente in contraddizione un corpo di polizia da tutti ritenuto pesantemente inquinato e che le stesse massime autorità nazionali, dal presidente al ministro dell’interno, ritengono debba essere urgentemente riformato, con una testata di punta fra quelle più indipendenti e più soggette ad attacchi giudiziari e aggressioni anche fisiche. Per il momento la polizia sembra aver ottenuto un punto importante a suo favore – nonostante il senso comune confermi pienamente la versione dei fatti data dal giornale – anche perché in questa prova di forza né il presidente né altri hanno ritenuto di dover spendere una parola a favore della libertà di stampa.

Su un altro piano, però, è importante che un giornale con le sue sole forze sia comunque riuscito a resistere alle pressioni e alle intimidazioni messe in atto nei suoi confronti, proteggendo fino alla fine le sue fonti (gli agenti che avevano portato la lettera aperta) e costringendo comunque il comando degli OMON a sostenere un processo, per viziato che possa essere. Nelle prossime settimane dovrebbe entrare in vigore la tormentata legge di riforma della polizia, che attutisce un po’  le sue possibilità di vessare impunemente i cittadini; e per altro verso vicende di cronaca drammatiche come il massacro di Kushchevskaya stanno a loro volta creando le condizioni per un riesame profondo del ruolo svolto dalla polizia nella gestione della cosa pubblica e della stessa sicurezza civile.

Sul massacro del Kuban

A venti giorni di distanza dal fatto, il massacro di Kushchevskaya – inizialmente considerato un fatto di ordinaria seppur atroce cronaca nera – sta diventando un “caso” politico di prima grandezza: una vicenda che mette a rischio la brillante carriera di uno dei più importanti governatori della Russia, nonché la credibilità del presidente Medvedev. Riepiloghiamo i fatti. Il 4 novembre scorso nella casa di campagna di Severer Ametov, un agricoltore benestante del villaggio di Kushchevskaya (regione di Kuban, nel sud della Russia) vengono trovati dodici cadaveri, otto adulti e quattro bambini, assassinati a coltellate salvo due bambini (il più piccolo aveva solo 8 mesi) strangolati. Tutti i corpi sono anche bruciati, perché i killer dopo la strage hanno dato fuoco alla casa. Le vittime appartengono a due famiglie: quella di Ametov e quella di un suo conoscente venuto da Krasnodar per festeggiare una ricorrenza.

La casa del delitto a Kushchevskaya

Le indagini portano in pochi giorni all’arresto di numerosi sospetti, tutti giovani sotto i 24 anni residenti nella zona, già noti alla polizia per vari atti di piccola – e a volte non tanto piccola – criminalità; tra loro finisce in prigione anche tal Sergei Tsapok, membro del consiglio comunale di Kushchevskaya. Sul posto arrivano ovviamente anche nugoli di giornalisti, e a loro, più che alla polizia, alcuni abitanti del posto rivelano che la gang da anni terrorizzava gli abitanti, imponendo il “pizzo” sugli affari e mettendo in atto estorsioni con minacce e violenze, senza esser minimamente disturbata dalla polizia.

Mentre ci si chiede quale possa esser mai stata la motivazione per un delitto così spaventoso – antipatie personali, vendetta per antichi sgarbi, debiti di gioco, una rapina finita male – e nessuna di queste ipotesi pare aver senso, cominciano anche le domande scomode. Che ci fa un noto teppista violento in un consiglio comunale? Perché le autorità e la polizia hanno permesso a gente del genere di spadroneggiare a piacimento nella zona per anni e anni? E’ vero che c’è stata addirittura un’aperta complicità con i criminali, tanto che adesso gli abitanti hanno paura a parlare?

Il caso diventa in fretta uno scandalo nazionale. Tutti ne parlano, al punto che anche il Cremlino interviene sulla vicenda e chiede – sia pure in termini generali, senza far nomi precisi – che si vada a fondo nella ricerca delle “responsabilità personali”, senza fermarsi di fronte a cariche ufficiali. Il tutto suona molto male per l’uomo che di fatto esercita l’autorità massima nella regione, cioè il governatore Aleksandr Tkachev, uno dei personaggi più potenti del paese. Eletto dieci anni fa alla guida del kraj del Kuban (con oltre l’80 per cento dei voti!) e riconfermato due volte, è stato anche per cinque anni deputato alla Duma di Stato ed è oggi il sovrintendente ai lavori di preparazione per le Olimpiadi invernali del 2014 a Sochi (che è appunto nel Kuban), cioè ha in mano le carte per uno degli appuntamenti internazionali cruciali della Russia, nonché per la ripartizione di un giro di quattrini enorme. E dunque, come mai Tkachev non si è accorto che da anni una gang di assassini faceva il bello e il cattivo tempo nella regione, probabilmente protetta dalla polizia? Non sarà che al governatore faceva comodo tenere coperta una situazione scomoda, e magari usare quei “ragazzacci” per “risolvere problemi” nel territorio?

Una risposta, Tkachev ha provato a darla ieri, indicendo un’assemblea pubblica a Kushchevskaya e presentandosi per rassicurare gli abitanti: “Non avete niente da temere, tutto è sotto controllo e i responsabili di questo delitto finiranno sicuramente tutti in prigione. Se così non fosse, mi dimetterei subito”. Il tutto tra applausi scroscianti del centinaio di persone riunite ad ascoltarlo. Peccato però che per i giornalisti presenti non sia stato difficile scoprire che l’assemblea non era stata minimamente annunciata alla popolazione e che la piccola folla presente era fatta per metà di funzionari regionali e poliziotti, per l’altra metà da gente “sicura” portata sul posto in pullmann dal capoluogo Krasnodar. Niente domande scomode, niente contestazioni.

Troppo facile, e non poteva risolvere niente. Oggi a Mosca sono arrivati altri manifestanti, da Kushchevskaya e da tutto il Kuban, per protestare in piazza e chiedere le dimissioni di Tkachev. Per il presidente Medvedev è un grave imbarazzo: lasciare il governatore tranquillamente al suo posto significa ammettere l’impotenza, anzi, l’inutilità dei propri inviti alla trasparenza e alla responsabilità, per giunta in un caso così atroce da sconvolgere l’opinione pubblica nazionale; agire e toglierlo dalla carica – senza peraltro che si sia ancora delineata una responsabilità specifica di qualche genere – significa sconfessare l’operato di polizia e magistratura (che non hanno minimamente chiamato in causa il governatore o altre autorità) e mettere molto a rischio la stabilità amministrativa, lì come altrove, in vista dell’importantissimo appuntamento olimpico (del resto, Medvedev non è nemmeno riuscito a fare pulizia nel comune di Khimki, i cui amministratori sono probabilmente coinvolti in una serie di orribili aggressioni contro giornalisti a proposito della famigerata autostrada nel bosco).

E intanto, restano insoluti anche i quesiti più strettamente giudiziari sollevati dal massacro di Kushchevskaya: in particolare, nonostante gli arrestati abbiano a quanto sembra confessato la loro colpevolezza, non si sa ancora perché abbiano agito e chi li abbia mandati a sterminare due famiglie…

Tolstoj oggi? Un blogger fuorilegge

Le Tolstoj in una foto del 1908 di Prokudin-Gorsky

Chi pensasse che Lev Tolstoj sia una sorta di venerato “padre della patria” in Russia, come Dostoevskij o Pushkin, rimarrebbe assai sorpreso nell’assistere in questi giorni alle modestissime celebrazioni organizzate a Mosca nel centenario della scomparsa del grande scrittore e filosofo (morto di polmonite nella stazione ferroviaria di Astapovo il 20 novembre 1910, a 82 anni). Solo qualche dibattito pubblico, un paio di letture, la proiezione di un film (l’hollywoodiano “L’ultima stazione”) e l’ingresso gratuito nella sua casa-museo moscovita. Un giornale in lingua inglese, The Moscow News, gli ha dedicato qualche pagina e ha organizzato un forum. Poco altro.

Niente commemorazioni ufficiali e nessuna cerimonia religiosa. Anzi, la chiesa ortodossa ha colto l’occasione del centenario per far sapere – con una lettera ufficiale dell’archimandrita Tikhon – che Tolstoj resta un “nemico del cristianesimo”, che la scomunica lanciatagli nel 1901 dal Santo Sinodo per via del suo “anarchismo” resta sempre valida e che dunque non ci sarà nessun perdono e nessuna riconciliazione. Tikhon risponde a una lettera aperta inviata ieri dal presidente dell’Unione libraria russa Sergei Stepashin al patriarca Kirill e pubblicata dal giornale governativo Rossijskaja Gazeta con la richiesta appunto di perdonare il grande scrittore.

Ma evidentemente le idee e le opere di Lev Tolstoj sono oggi un fattore di divisione, in Russia – esattamente come cent’anni fa, al tempo degli zar. E non è solo questione di chiesa, se un tribunale locale nella regione di Rostov (sud della Russia) ha recentemente definito lo scrittore “un estremista” perché “incitava all’odio religioso”. Lo stesso tribunale, che ha tirato in ballo Tolstoj nel corso di un processo a proposito della chiusura di una chiesa dei Testimoni di Geova, ha scelto questa frase dello scrittore come “prova” del suo estremismo: “Sono convinto che la dottrina della Chiesa (…) comprenda menzogne nocive, quasi le stesse delle peggiori superstizioni e stregonerie, che nascondono completamente tutto il vero significato dell’insegnamento cristiano”. Parole dure, che insieme alle sue teorie anarchiche collocherebbero oggi Tolstoj nel novero dei più determinati oppositori del Cremlino e quindi, riportando al giorno e alle tecnologie attuali la sua attività pubblicistica (teneva diari e corrispondenze fittissime per diffondere le sue idee), ne farebbero una sorta di blogger anti-regime (un “eroe della blogosfera”, come ha detto Pavel Basinsky, autore di Fuga dal Paradiso, un libro sugli ultimi giorni dello scrittore). Sulla base delle attuali normative anti-estremismo vigenti in Russia, in pratica Tolstoj sarebbe pronto per essere arrestato da parte della polizia.

Anche perché, a differenza di quanto accade con molti oppositori odierni del governo, le idee propagandate dall’autore di Guerra e Pace sono idee ancor oggi radicali, molto vicine al comunismo “duro e puro” – tant’è che la vera e propria santificazione di Tolstoj, la sua ascesa ufficiale nell’empireo della cultura nazionale, è dovuta agli anni sovietici (anche se in parallelo vennero duramente perseguitati i tolstojani) – e certamente con poco o nulla in comune rispetto all’idea di società che emana dal Cremlino e dall’intelligentsia russa contemporanea. “Lenin lo chiamò uno specchio anticipatore della rivoluzione russa”, dice un dirigente del Pc di San Pietroburgo.

Proteste a Kiev contro le nuove tasse

La protesta contro le tasse a Kiev

Ancora un giorno di proteste in piazza nella capitale ucraina contro il nuovo “codice fiscale” che la Rada (parlamento) ha approvato oggi sotto la pressione del Fondo monetario internazionale. Il nuovo codice rivoluziona in profondità il rapporto tra il fisco e le piccole imprese, nel tentativo di costringere queste ultime a contribuire in misura maggiore al bilancio dello Stato; ma una parte non piccola della popolazione – comprendente tassisti, barbieri, piccoli commercianti e categorie del genere – si è sentita colpita in modo pesante e proditorio e ha quindi dato ascolto in modo abbastanza massiccio alle istanze sollevate contro il governo dalle forze di opposizione, in testa il partito dell’ex premier Yulija Timoshenko. In pratica si tratta della prima vera protesta di massa contro il governo di Mikola Azarov e, sopra di lui, contro il presidente Viktor Yanukovich.

La nuova legge è stata esplicitamente chiesta dal Fmi come condizione annessa al prestito di 15 miliardi di dollari che il Fondo ha concesso all’Ucraina; secondo il Fmi il sistema fiscale ucraino è uno dei peggiori del mondo e non contribuisce minimamente a ridurre il brutto rapporto deficit-pil del paese, che oggi si aggira sul 5 per cento e dovrebbe invece ridursi a non più del 3,5 entro l’anno prossimo. Ma la strada scelta dal governo sembra fatta apposta per sollevare un putiferio sociale: ai piccoli imprenditori – che non dovranno impiegare più di quattro persone per rientrare nella categoria, contro le dieci attuali – verrà fatto obbligo di registrarsi presso le amministrazioni dello Stato e di pagare le tasse in misura del 25 per cento sui ricavi, mentre finora le imposte erano costituite da tariffe fisse (decisamente basse).

La tensione è resa più acuta per il fatto che la nuova legge arriva a poca distanza dal recente decreto con cui il governo ha alzato bruscamente le tariffe per il consumo domestico di gas: l’effetto combinato dei due provvedimenti potrebbe risultare fatale per molti bilanci familiari. Per questo sia dai manifestanti che da giorni presidiano la piazza di fronte al Parlamento sia dai leader dell’opposizione politica è venuta la richiesta al presidente Yanukovich di mettere il veto sulla legge. Il presidente ha detto che “studierà la situazione”.

Viktor Bout in carcere negli Usa. Panico a Mosca

Viktor Bout al momento dell'estradizione da Bangkok

Viktor Bout, il 43enne “imprenditore” russo noto come “il mercante di morte” per la sua (per ora presunta) attività di venditore di armi a stati e gruppi non governativi, è da ieri in un carcere di New York, dopo esser stato estradato negli Usa dalla Thailandia. La vicenda non ha destato molto rumore nel mondo ma sta producendo una grandissima agitazione a Mosca, dove evidentemente si temono sviluppi molto sgradevoli legati a quel che Bout, ormai senza niente da perdere, potrebbe raccontare agli inquirenti e soprattutto ai servizi segreti americani. Non per niente il ministero degli esteri russo ha violentemente protestato con il governo thailandese definendo l’estradizione di Bout “completamente priva di basi e illegale”, mentre nella Duma di Stato è esploso un dibattito con aperte minacce di ritorsioni nei confronti di Bangkok. La notizia, comunque, ha dominato tutte le prime pagine dei media russi: anche perché, da un certo punto di vista, rappresenta un nuovo brutto colpo per i servizi segreti di Mosca, già esposti al di là del tollerabile con la vicenda della “talpa” che ha venduto agli americani un’intera rete di agenti operativi negli Stati Uniti.

Bout era in carcere a Bangkok dal marzo 2008, e durante tutto questo tempo si è svolta una frenetica battaglia legale a tre fra i governi russo, thailandese e statunitense. Gli americani – che pretendono di processare l’uomo come fornitore di armi alla guerriglia colombiana delle FARC – avevano arrestato Bout in Thailandia tentando di portarselo via subito, ma hanno dovuto aspettare due anni e mezzo, durante i quali hanno esercitato pressioni fortissime sul governo di Bangkok per ottenere il loro bottino; i russi da parte loro – che sostengono essere Bout innocente e la sua detenzione illegale – avevano ottenuto dei successi sul terreno legale: per due volte la giustizia thailandese aveva respinto le richieste di estradizione avanzate da Washington, ma alla fine sono stati “bruciati” da un’ultima estrema pressione americana sul governo, che ha provocato la rottura delle procedure legali e la subitanea consegna di Bout, senza alcun preavviso dato alla famiglia o all’ambasciata.

Come che sia, il baffuto personaggio ormai è negli Usa, dove rischia l’ergastolo. Per capire cosa potrebbe raccontare agli inquirenti e ai giudici bisognerebbe sapere esattamente cosa ha fatto e chi è stato Bout negli ultimi vent’anni – il che per ora è oggetto più di ipotesi e congetture che di certezze. Di lui si sa per certo che era un ufficiale delle forze aeree sovietiche; con la dissoluzione dell’URSS e il successivo passaggio allo stato civile, Viktor Bout iniziò a partire dall’Asia centrale un’attività da lui definita “commerciale”, comprando aerei che le forze armate non utilizzavano più e creando de facto una compagnia privata per trasporti charter attiva in varie parti del mondo. Quel che non è così certo è la natura dei carichi che gli aerei di Bout trasportavano, così come resta piuttosto nebbiosa l’esatta collocazione degli aeroporti di destinazione. Gli americani sostengono (e con loro gli inglesi e altri governi occidentali) che l’attività principale del “commercio” di Bout erano le armi, che lui avrebbe rilevato a basso prezzo da amici e complici all’interno delle forze armate e dei servizi segreti russi (e di altri paesi ex sovietici) o direttamente dalle fabbriche militari, per poi rivenderle a “clienti” illegali cioè essenzialmente a formazioni di guerriglia di qualsiasi colore.

Nei primi anni 90 le destinazioni dei carichi di Bout sarebbero stati  l’Afghanistan, straziato dalle lotte fra i diversi gruppi di mujaheddin e tra questi e il vacillante governo di Najibullah, e la Bosnia, in preda alla guerra etnica tra serbi, croati e mussulmani. Parallelamente le vendite di armi sarebbero state effettuate, aggirando gli embarghi promossi dalle Nazioni Unite, anche in Libano e soprattutto in Africa, a iniziare dall’Angola – dove Bout prestò servizio militare per qualche tempo in qualità di consigliere e dove sarebbero iniziati i primi suoi traffici – e poi in Congo, in Liberia, in Sierra Leone. Il suo cliente migliore, anzi secondo le accuse anche un partner commerciale, sarebbe stato l’allora leader liberiano Charles Taylor. Il paradosso è che per molti anni le attività di Bout sono state tollerate e anzi, sfruttate da diversi governi compresi quelli della Francia e degli stessi Stati uniti per non parlare delle Nazioni Unite. Ufficialmente i voli compiuti per conto di questi ultimi “clienti” trasportavano cose tipo “fiori” o “polli congelati”; in realtà nessuno lo sa bene.

Alla fine Washington ha deciso di prendere Bout in trappola, accusandolo in pratica di terrorismo e di “cospirazione per uccidere cittadini americani”, per aver venduto o cercato di vendere armi sofisticate anche a gruppi legati al terrorismo islamico e, ultimamente, alle FARC colombiane; proprio attraverso un finto acquisto di armi per conto della guerriglia colombiana Bout è stato arrestato, in una operazione spionistica di altissimo livello.

Lui, per contro, si è sempre dichiarato del tutto innocente, con l’appoggio finora del governo russo. Quel che Mosca teme – così perlomeno riferiscono diversi media russi – è che Bout a questo punto vuoti il sacco e coinvolga complicità ad alto livello nei palazzi del potere della Russia odierna; in particolare pare si senta minacciato uno dei principali esponenti del gruppo dei “duri” putiniani, il vicepremier Igor Sechin (che avrebbe addirittura lavorato insieme a lui in Africa negli anni 90). Altri ipotizzano che Bout abbia troppe cose da raccontare anche in merito ai rapporti fra i servizi segreti russi e l’omicidio dell’ex agente del KGB Litvinenko, a Londra; ma siamo nel campo delle pure congetture. Quel che sembra certo è che si tratta di un personaggio scottante, tanto che è stato trasferito da Bangkok in mezzo a misure di sicurezza straordinarie, con indosso indumenti antiproiettile e con centinaia di cecchini appostati ovunque lungo il percorso.

Khotkovo, tutti i migranti cacciati in una notte

A Khotkovo non è rimasto più neanche un migrante. Ne vivevano alcune centinaia in questa cittadina a un’ora da Mosca, e nel giro di una notte sono scomparsi tutti. Per qualche ora si era temuto anche il peggio, cioè un vero e proprio pogrom contro gli immigrati asiatici, sullo stile di quanto accaduto quattro anni fa a Kondopoga, in Karelia; poi in un modo o nell’altro sono state evitate le violenze, ma le minacce sono bastate a far fuggire dalla città tutti gli immigrati.

Discussione agitata tra cittadini e autorità a Khotkovo

Analogo a quello di Kondopoga il retroterra sociale ed economico in cui è maturato il conflitto: disoccupazione elevata, presenza di numerosi immigrati (260 “ufficiali” e probabilmente oltre il doppio “reali”, su una popolazione di 25mila anime) impiegati soprattutto in edilizia, sconvolgimento della tranquilla seppur misera normalità del paese da parte dei nuovi arrivati, a loro volta frustrati e infelici. Analoga anche la scintilla che ha fatto precipitare la situazione: l’omicidio di un residente locale ferito a coltellate da un immigrato durante una rissa. A Kondopoga gli immigrati erano “interni”, cioè cittadini russi provenienti dalla Cecenia; a Khotkovo invece si trattava di immigrati dall’estero, anche se “senza visto”, cioè provenienti dalle repubbliche dell’Asia centrale e in particolare da Tagikistan e Uzbekistan – il che li rende più esposti e ricattabili.

Il fatto è avvenuto il 26 ottobre scorso e già il 2 novembre la polizia aveva arrestato il responsabile, un tagiko. Ma tre giorni dopo, una folla di qualche centinaio di locali ha bloccato per alcune ore la strada principale, chiedendo che tutti i lavoratori stranieri presenti nel territorio di Khotkovo venissero espulsi “per sempre”. Sono iniziate allora delle complesse trattative tra il Comitato appena formatosi, che reclamava la cacciata degli stranieri, le autorità locali (che volevano evitare una misura così drastica), la polizia e altri soggetti, arrivati anche da Mosca: un rappresentante della “Camera sociale” (un organismo federale che dovrebbe occuparsi dei diritti dei cittadini), un altro di un’associazione che tutela gli immigrati tagiki, e poi alcuni dirigenti del movimento ultranazionalista “Unione slava” e di altri gruppetti analoghi, che già si stavano preparando a calare in massa su Khotkovo.

Ben presto anche il municipio e la polizia di Khotkovo decidevano che la cosa migliore era assecondare almeno in parte le richieste dei dimostranti, che avevano già preparato un elenco con tutte le case in cui vivevano i migranti (in realtà un paio di dormitori, una ex scuola e pochi altri indirizzi) e minacciavano di dar vita a un pogrom, una caccia allo straniero. Domenica 7 novembre, in un clima di tensione, veniva deciso di espellere tutti gli “illegali”, fissando l’inizio dell’operazione per il giorno successivo; ma lunedì mattina, in pratica, già non era più possibile vedere un tagiko o un uzbeko in giro per le strade, e anche i loro luoghi di residenza risultavano vuoti, abbandonati in fretta e furia. A un controllo più attento risultava in effetti che nessun migrante si trovava più in paese. E il sindaco a quel punto emetteva l’ordinanza che il comitato dei cittadini pretendeva e aspettava: il divieto “d’ora in avanti” a qualsiasi lavoratore straniero di insediarsi sul territorio di Khotkovo. Ci sono poi voluti alcuni giorni prima che le notizie su questa vicenda arrivassero fino ai media nazionali, a partire da Gazeta.ru, che ha dedicato un lungo servizio ai fatti di Khotkovo; anche perché a questo punto, pur se sono state sventate le minacce dei comitati e dei gruppi nazionalisti di “far giustizia da soli” e di “vendicare i caduti”, tutta la storia resta comunque un segnale allarmante del clima che aleggia non soltanto a Khotkovo ma in tutta la Russia, dove ogni anno arrivano 1,8 milioni di immigrati dall’Asia centrale e dove le situazioni di estrema sofferenza sono ormai la normalità, ancor più in provincia che nelle città importanti.

Pendolari in rivolta a Mosca

Pendolari in una stazione moscovita

Non succede spesso che i pazienti e disciplinati cittadini russi inscenino proteste di massa spontanee. Ma quando è troppo è troppo, e la settimana scorsa la situazione dei treni pendolari che portano nella capitale centinaia di migliaia di lavoratori abitanti dei sobborghi ha raggiunto livelli intollerabili. Fatto sta, riporta l’agenzia RIA-Novosti, che venerdì scorso migliaia di pendolari alla stazione periferica di Krasnogorsk hanno occupato i binari, preso d’assalto un treno che andava in direzione opposta e chiesto che il convoglio si dirigesse invece verso Mosca. Solo le esortazioni e le preghiere di altri pendolari li hanno fatti desistere, mentre tutta la linea precipitava nel caos. Scene simili si sono verificate anche altrove, anche se meno clamorosamente.

In effetti, è da settembre che la situazione su gran parte della rete di elektrichki (i treni pendolari) è andata peggiorando, per via di una serie di lavori in corso su varie linee che, a detta dell’azienda MZhD (acronimo per Ferrovie Moscovite), devono essere assolutamente completati prima che le temperature scendano troppo, il che imporrebbe una paralisi di diversi mesi. I più  complessi di questi lavori di riparazione e ammodernamento coinvolgono il tratto fra le stazioni Kalanchyovskaya (periferia nord-orientale) e Kurskaya (in centro), che risulta essere cruciale per diverse linee suburbane. Il risultato è che moltissimi treni sono stati cancellati (su un paio di linee la cancellazione riguarda addirittura tutto il servizio); i tempi di attesa alle stazioni sono aumentati in modo insopportabile e ormai nelle ore di punta toccano regolarmente i 30-40 minuti rispetto agli orari previsti; i passeggeri oltre al disagio di arrivare in ritardo devono quindi sorbirsi anche lunghe attese sulle banchine, con temperature che in questi giorni già si avvicinano allo zero. E quando finalmente i treni arrivano, sono già così pieni che moltissimi non riescono nemmeno a salire a bordo – quello che è avvenuto appunto venerdì alla stazione di Krasnogorsk (questo video, che risale a settembre, mostra bene in che situazione si arriva a viaggiare. E da allora le cose sono peggiorate). E va da sè che non sono stati finora neanche affrontati altri annosi problemi dei treni suburbani moscoviti, privi di toilettes e di cestini per rifiuti, quindi sporchissimi, e in compenso frequentati da una miriade di venditori e questuanti spesso aggressivi.

In tutto il mondo, più o meno, i treni pendolari sono uno degli incubi dei cittadini che vivono nei sobborghi delle metropoli, e anche a Mosca non è certo la prima volta che si verificano situazioni simili. Ma il fatto è che proprio in questo periodo l’amministrazione della MZhD ha annunciato rincari formidabili per biglietti e abbonamenti, nonché un drammatico inasprimento delle sanzioni per chi è scoperto a viaggiare senza biglietto: tanto per dare un’idea, il biglietto di corsa semplice per una zona passerà da 16,5 a 25 rubli (da 40 a 60 euro cent.), mentre la multa per chi è senza passerà da 100 a 2300 rubli (da 2,4 a 54,6 euro). Per aggiungere le beffe al danno, negli ultimi giorni si sono moltiplicati anche gli annunci trionfali di nuovi fantastici treni ad alta velocità – nuove corse giornaliere fra San Pietroburgo e Helsinki, nuova linea superveloce verso Chelyabinsk, ecc. – da costo di svariati miliardi di rubli.

Quanto basta, evidentemente, per far perdere la pazienza anche ai santi – tantopiù che le alternative non esistono: venire in macchina a Mosca è un’impresa suicida, con gli enormi ingorghi che paralizzano completamente il traffico cittadino (tanto che il neosindaco Sobyanin ha messo questo problema in testa alle sue priorità di governo); e i servizi di autobus sono comunque lentissimi e insufficienti a smaltire il carico di lavoratori pendolari che devono raggiungere la rete metropolitana. Dopo le proteste, forse ora qualcosa si muove: l’azienda ha annunciato che ai treni verranno aggiunti dei vagoni per aumentare la capacità di trasporto, e ha promesso che la maggior parte dei lavori in corso termineranno entro la fine del mese. Ma pochi ci credono.

La catastrofe dello spionaggio russo

Anna Kushchyenko, alias Anna Chapman

“C’è qualcosa di davvero marcio nei nostri servizi segreti”, ha confidato all’agenzia Ria-Novosti un alto ufficiale in pensione dell’intelligence russa, dopo che il quotidiano Kommersant ha rivelato il nome della “talpa” che nel giugno scorso ha fatto scoprire agli americani una rete di dieci spie russe operanti negli USA: un nome importante, importantissimo, quello del colonnello Shcherbakov, l’uomo che gestiva l’intera rete del SVR (i servizi segreti civili russi) in America. La rivelazione è stata un terremoto psicologico, in Russia: scoprire che a tradire i dieci agenti è stato proprio l’uomo che li aveva “piazzati” e ne seguiva le attività ha voluto dire rendersi conto che l’intero sistema è corrotto e insicuro.

“Questo significa – continua l’alto ufficiale in pensione – che le cose sono veramente messe male sul piano della sicurezza interna a Yasenevo (la località alla periferia sud di Mosca dove ha sede il SVR, ndr) e che probabilmente lì stanno lavorando sulle cose sbagliate”. Tutto da rifare, insomma. Anche perché la vicenda sembra mettere in luce errori e ingenuità inconcepibili per un servizio segreto degno di questo nome. Per esempio il fatto che il traditore in questione, Shcherbakov, aveva da molti anni una figlia che vive negli Stati uniti: “Come si può consentire a un uomo che ha un parente stretto che vive all’estero di occupare una posizione così delicata e cruciale?”. E non basta, visto che i massimi dirigenti del SVR, un anno prima che esplodesse lo scandalo, non avevano ritenuto di doversi preoccupare per il fatto che Shcherbakov aveva rifiutato una promozione di carriera importante – promozione che comportava l’obbligo di sottoporsi alla “macchina della verità” e che il colonnello non aveva nessun motivo di rifiutare. Altro segnale, anche il figlio del colonnello, che lavorava per un organismo statale importante, aveva scelto di lasciare la Russia e recarsi negli Stati uniti poco prima dello scandalo; infine Shcherbakov stesso aveva tagliato la corda tre giorni prima che le 10 spie venissero scoperte, ma neppure quest’ultimo, estremo allarme era stato sufficiente al SVR per richiamare i propri agenti a rischio ed evitare così che venissero arrestati e scoppiasse lo scandalo. Insomma, un disastro completo.

E adesso? Fonti anonime vicine al Kremlino hanno fatto circolare la voce che il SVR voglia vendicarsi senza pietà di Shcherbakov e abbia già sguinzagliato “un Mercader” per lui (Ramon Mercader fu l’agente segreto del NKVD che nel 1940 uccise Lev Trotsky in Messico); evidentemente il traditore dovrà essere accuratamente protetto dai servizi statunitensi, che gli devono in effetti molto. Quanto agli agenti scoperti in giugno, tra loro ci sono personaggi molto diversi per personalità e importanza: si va dalla bella e frivola Anna Kushchyenko (alias Anna Chapman), che da allora non ha perso occasione per esibirsi in interviste, show e photo-op cambiando completamente ruolo fino a esporsi in versione “hot” per l’edizione russa di Maxim, al sessantacinquenne Mikhail Vasenkov, che da oltre 40 anni aveva l’identità del fotografo spagnolo Juan Lazaro ed era uno dei migliori e più “coperti” agenti russi, al punto che né la moglie che aveva vissuto con lui più di un trentennio né i figli né gli amici e i colleghi avevano mai sospettato che potesse non essere quello che si mostrava. Vasenkov aveva segretamente ricevuto la medaglia di Eroe dell’Urss negli anni ’80 ed aveva il grado (sempre segreto) di generale; dopo l’arresto sembra sia stato torturato dagli americani, subendo la frattura di alcune costole e di una gamba, ma si tratta di voci senza alcuna conferma ufficiale.